di Giancristiano Desiderio
Quando penso al calcio penso al Cagliari. Quando penso
il calcio penso il Cagliari. Non so bene perché, ma è così. Un istinto. Uno
stupore infantile.
Sarà che le mie donne – mi madre e la madre di mia
madre – erano sarde, sarà che metà famiglia è dall’altra parte del
Mediterraneo, sarà che il Regno di Sardegna ha fatto l’Italia, sarà che a
Cagliari, a Iglesias, a Carloforte mi son sempre sentito a Casa, sarà che zio
Egidio aveva un nome secondo per bellezza solo alla sua anima, sarà quel che
sarà, io quando penso il calcio penso al Cagliari e oggi che il Cagliari, senza
Riva e senza Scopigno, è terzo in classifica penso che in fondo questa mia idea
balorda di associare il calcio al Cagliari tanto balorda poi non è.
L’immagine che risale alla testa come il sangue e che
fuoriesce come le nuvole dei fumetti è quella dei calciatori cagliaritani che
vestono la divisa bianca. Tutta bianca: la maglia, i pantaloncini, i
calzettoni. Ai piedi hanno le scarpette nere e tra i piedi calciano e giocano
il pallone di un tempo: quello di cuoio con gli esagoni bianchi e i pentagoni
neri che quando rotola sembra la vita, metà fortuna e metà virtù, come diceva
Machiavelli giocando a pallone con Pier Soderini. Quei giocatori di bianco
vestiti che si muovono con eleganza su un campo verde prato o nero terra mi
appaiono nella luce del crepuscolo di un’eterna primavera e mi chiamano per
farmi giocare.
Tutto accade tra i due e i quattro anni diceva Elémire
Zolla, poi tutto il resto o è dimenticanza o è reminiscenza. Mi sembra
esagerato ma che la fanciullezza, come il mattino della vita, abbia l’oro in
bocca e che tutto il resto sia oblio o ricordo è vero senz’altro. Nei miei
ricordi di ragazzino con l’estate addosso c’è un campo di calcio di terra
battuta che si apriva all’improvviso, come una radura, nella signorile
cittadina di Iglesias. Il campo, che credo sia ancora lì nella sua altera
solitudine, era concepito come un’arena o una fossa per giovani leoni. A far da
tribuna non vi erano gli spalti che salgano verso il cielo ma dei gradoni che si
avviavano dal marciapiedi e scendevano verso il campo da gioco che con le porte
e le linee gessate mi appariva, a me ragazzino, in tutta la sua seducente
nudità, come il sorriso della bella donna amata o il piacevole inganno della
giovinezza. Sarà per questo sogno ad occhi aperti della fanciullezza che nella
mia mente e nel mio cuore il Cagliari diventa la squadra di calcio ideale,
ideale e reale come l’eidos di quel numero 10 di Platone.
Ideale e reale perché questo Cagliari della banda
Maran sembra giocare a memoria, ma la memoria è la gioia di ricordare come si
gioca con piacere e per bellezza. Il Cagliari, che vince a Bergamo e
surclassa la Fiorentina, gioca un calcio vero, fatto di possesso palla e attesa
del momento buono – il kairos – per velocizzare e bucare la difesa avversaria.
Cigarini, Joao Pedro, Nainggolan con Rog solo davanti al solo Dragowski. Sembra
che oggi, potrebbe dir Brera, non ci sia niente di più bello sotto il sole. E
cinquant’anni dopo Gigi Riva si chiama Nainggolan. Chissà.
Ma è così. Non c’è mai stato niente di più bello sotto
il sole come Nebida e Masua. Cinquant’anni fa, nella sabbia e nel vento nel sole
e nel sale della spiaggia di Fontanamare, su per le dune e giù per le rocce
marine, tutto accadeva nel golfo del Leone, come nell’eterna partita di pallone
qual è la nostra vita con gli dèi e il Gioco e la bellezza sovrana di Pan di
Zucchero che emerge dalle acque infantili dei ricordi materni.