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Cagliari football club

giancristiano desiderio
Pubblicato da in Povera e nuda · 15 Novembre 2019
Tags: CagliariSardegnaRivaNainggolan

di Giancristiano Desiderio

Quando penso al calcio penso al Cagliari. Quando penso il calcio penso il Cagliari. Non so bene perché, ma è così. Un istinto. Uno stupore infantile.

Sarà che le mie donne – mi madre e la madre di mia madre – erano sarde, sarà che metà famiglia è dall’altra parte del Mediterraneo, sarà che il Regno di Sardegna ha fatto l’Italia, sarà che a Cagliari, a Iglesias, a Carloforte mi son sempre sentito a Casa, sarà che zio Egidio aveva un nome secondo per bellezza solo alla sua anima, sarà quel che sarà, io quando penso il calcio penso al Cagliari e oggi che il Cagliari, senza Riva e senza Scopigno, è terzo in classifica penso che in fondo questa mia idea balorda di associare il calcio al Cagliari tanto balorda poi non è.

L’immagine che risale alla testa come il sangue e che fuoriesce come le nuvole dei fumetti è quella dei calciatori cagliaritani che vestono la divisa bianca. Tutta bianca: la maglia, i pantaloncini, i calzettoni. Ai piedi hanno le scarpette nere e tra i piedi calciano e giocano il pallone di un tempo: quello di cuoio con gli esagoni bianchi e i pentagoni neri che quando rotola sembra la vita, metà fortuna e metà virtù, come diceva Machiavelli giocando a pallone con Pier Soderini. Quei giocatori di bianco vestiti che si muovono con eleganza su un campo verde prato o nero terra mi appaiono nella luce del crepuscolo di un’eterna primavera e mi chiamano per farmi giocare.

Tutto accade tra i due e i quattro anni diceva Elémire Zolla, poi tutto il resto o è dimenticanza o è reminiscenza. Mi sembra esagerato ma che la fanciullezza, come il mattino della vita, abbia l’oro in bocca e che tutto il resto sia oblio o ricordo è vero senz’altro. Nei miei ricordi di ragazzino con l’estate addosso c’è un campo di calcio di terra battuta che si apriva all’improvviso, come una radura, nella signorile cittadina di Iglesias. Il campo, che credo sia ancora lì nella sua altera solitudine, era concepito come un’arena o una fossa per giovani leoni. A far da tribuna non vi erano gli spalti che salgano verso il cielo ma dei gradoni che si avviavano dal marciapiedi e scendevano verso il campo da gioco che con le porte e le linee gessate mi appariva, a me ragazzino, in tutta la sua seducente nudità, come il sorriso della bella donna amata o il piacevole inganno della giovinezza. Sarà per questo sogno ad occhi aperti della fanciullezza che nella mia mente e nel mio cuore il Cagliari diventa la squadra di calcio ideale, ideale e reale come l’eidos di quel numero 10 di Platone.

Ideale e reale perché questo Cagliari della banda Maran sembra giocare a memoria, ma la memoria è la gioia di ricordare come si gioca con piacere e per bellezza. Il Cagliari, che vince a Bergamo e surclassa la Fiorentina, gioca un calcio vero, fatto di possesso palla e attesa del momento buono – il kairos – per velocizzare e bucare la difesa avversaria. Cigarini, Joao Pedro, Nainggolan con Rog solo davanti al solo Dragowski. Sembra che oggi, potrebbe dir Brera, non ci sia niente di più bello sotto il sole. E cinquant’anni dopo Gigi Riva si chiama Nainggolan. Chissà.

Ma è così. Non c’è mai stato niente di più bello sotto il sole come Nebida e Masua. Cinquant’anni fa, nella sabbia e nel vento nel sole e nel sale della spiaggia di Fontanamare, su per le dune e giù per le rocce marine, tutto accadeva nel golfo del Leone, come nell’eterna partita di pallone qual è la nostra vita con gli dèi e il Gioco e la bellezza sovrana di Pan di Zucchero che emerge dalle acque infantili dei ricordi materni.



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