di Giancristiano Desiderio
Era
il 1910 quando a Benevento, in occasione dei cinquant’anni dell’unità d’Italia
e della nascita della Provincia, si imbastì una sorta di “processo al Risorgimento”.
Antonio Mellusi, storico e deputato, raccolse carte, documenti, memorie e,
quasi non credendo a sé stesso, giunse alla conclusione che la gloriosa
rivoluzione sannita fu in realtà una “rivoluzione senza Risorgimento”,
qualcosa di molto simile alla definizione che Vincenzo Cuoco diede della
rivoluzione napoletana del 1799: rivoluzione passiva o senza popolo. Il periodico
“Vita del Sannio” dovette ammettere che Benevento non era tanto una “novella
Atene” quanto un “piccolo borgo sconosciuto”. Cent’anni dopo e più, Antonio
Gisondi, che ha insegnato storia della filosofia moderna all’università di
Salerno, ha ripreso il filo del discorso filologico del conterraneo Mellusi e
ha pubblicato una storia critica della provincia beneventana intitolata proprio
così: Novella Atene o piccolo borgo? (Guida editori).
L’argomento
della ricerca è l’uso che le classi dirigenti beneventane, dall’Unità alla
Repubblica, attraverso importanti figure come Leonardo Bianchi, Raffaele De
Caro, Giovanbattista Bosco Lucarelli, hanno fatto in modo consapevole o meno
dei due miti fondativi della storia moderna di Benevento: il Sannio e l’enclave
pontificia. E’ proprio questa illusione di Benevento come “mondo a parte” o
come “piccolo mondo antico”, chiuso, compiuto e perfetto in sé stesso, che cade
sotto i colpi della conoscenza storica che mostra, invece, che l’unica effettiva
modernizzazione di “Benevento e dintorni” – per usare il titolo dell’opera di
un altro storico quale Gianni Vergineo – è avvenuta tramite l’emigrazione: in
centocinquant’anni oltre 300mila sanniti sono emigrati, da una parte
alleggerendo il peso sociale della provincia e dall’altra sostenendola
economicamente.
Leggendo
il libro di Gisondi, molto ben documentato e che si avvale della consultazione
della ricca pubblicistica beneventana a cavallo tra Ottocento e Novecento e che
potrebbe essere definito una critica della ragion storica di Benevento, emerge
un singolare paradosso: la storia di Benevento dopo l’unità nazionale è stata
spesso pensata in continuità con gli otto secoli di regno pontificio ma in
realtà, con la “cesura” nazionale, ciò che emerge è una comunanza con la più
ampia storia nazionale in cui allo Stato liberale da un lato fece difetto il
consenso popolare e dall’altro fu ferito a morte dal marxismo e dal
cattolicesimo. Non a caso Gisondi individua nella storia di Benevento due
esperienze riformiste che la nuova classe dei borghesi e dei possidenti ha
sempre ignorato: Louis de Beer, che nel 1810 in epoca napoleonica, fondò a
Benevento il Liceo e la prima biblioteca pubblica, e Carlo e Federico Torre che
furono i maggiori interpreti del liberalismo riformatore di Cavour. Proprio i
doveri mancati della borghesia della provincia beneventana fanno della storia
di Benevento non un mondo a parte ma una parte del mondo della storia d’Italia.