di Giancristiano Desiderio
La figura peggiore di questa storia è Tartufo. Ossia
la beneamata maschera del moralista che non vede la trave che lui ha
nell’occhio ma vede la pagliuzza che tu hai sotto le ciglia e, immancabile, ti
viene a fare la morale. La sua parola d’ordine è oggi una sola: resilienza. La
usa per ogni cosa e ti dice: “Devi essere resiliente”, “C’è bisogno di
resilienza”, “La virtù della resilienza ci salverà”. Tu la prima volta che
senti il sapiente richiamo alla resilienza dici “sì, sì, certo, hai ragione”,
quindi la seconda volta ti chiedi “ma questo perché non parla come mangia”, poi
la terza volta fai uno sforzo di auto-censura e prometti a te stesso di
resistere e, appunto, di essere resiliente e reagire senza mandarlo a quel
paese. Sai già, però, che tutta la tua buona volontà è destinata a soccombere
sotto questa grande montagna del popolo dei giornalisti e degli opinionisti
resilienti che della Resilienza hanno fatto un intercalare, un modo vuoto di
dire il vuoto.
Tra i drammi dell’epidemia da Covid-19 c’è anche il virus che ha
infettato il linguaggio: la resilienza era già nell’aria da tempo ma solo ora
con l’invito continuo ad essere resilienti è esplosa con tutta la sua
prosopopea e tutta la sua petulanza. E’ tutto un essere resilienti, tanto che
ormai è necessario essere resilienti ai professionisti della resilienza tanto
al chilo. Un po’ come qualche tempo fa si diceva costantemente “assolutamente
sì” e prima “un attimino” e poi “nella misura in cui”.
Tuttavia, l’uso di
resilienza è particolarmente antipatico e stucchevole per due motivi: primo, perché
la parola giusta è resistenza oppure reazione mentre resilienza è un termine
tecnico che nell’ambito della tecnologia dei materiali ha un suo senso ma al di
fuori del suo uso finisce per sortire un effetto contrario; secondo, perché la
capacità di reagire all’avversità presuppone proprio ciò che avversa, che si
oppone, che preme o resiste e, insomma, è l’esperienza stessa della vita che
non tollera le frasi fatte e i luoghi comuni che son tutti sterili e stecchiti
e esangui come lo sono tutti i moralisti che pretendono di parlare senza
passare attraverso il dramma.
L’intellettuale della resilienza mi fa venire in mente
un’espressione che usava a volte Domenico Rea: “’O ‘uall compp’ ‘a munnezz’”
ossia il gallo sopra la spazzatura. E qui di galli che ti vogliono fare non
solo la lezione di medicina e di politica ma anche di vita e di storia
dell’umanità ce ne sono proprio tanti. Ieri, ad esempio, ti spiegavano che il
cosiddetto lockdown – ossia chiudere tutto per parlare alla buona – era
obbligatorio, necessario, inevitabile. Però, ora – ora! – ti dicono che va
fatta la Fase 2 e bisogna puntare su test, isolamenti, tracciamenti. Ma non lo
sapevamo anche prima? Certo, lo sapevamo benissimo e ne avevamo anche delle prove
provate sia in Italia sia poco più in la dei nostri confini e, dunque, si
poteva evitare di aggiungere danno al danno, all’epidemia la fame e il
fallimento, ma questo per l’intellettuale della resilienza conta poco perché
lui è proprio resiliente alla logica, ai fatti, alle prove, proprio come
l’ipocrita Tartufo è resistente alla verità. Così se tu prima, sulla base di
riscontri e, perché no, anche di un po’ di autonomia di giudizio, avevi dei
dubbi, ora i tuoi dubbi sono già diventate le certezze dell’intellettuale e
moralista della resilienza che ti spiega né più ne meno quello che tu credevi
di aver capito ma che solo ora puoi veramente capire perché la bella figura del
resiliente te la spiega e ti insegna come devi vivere.
Del resto, ormai esiste un grande cervello unico che
pensa al posto tuo, al posto vostro e ti dice ciò che è vero e ciò che è falso
e ti spiega che se anche tu dovessi avere l’impressione che ti stanno facendo
fare una cazzata o, addirittura, il tuo stesso male, ebbene, è solo
un’impressione perché in realtà il tuo male è fatto proprio per il tuo bene. Ad
esempio: per ciò che riguarda la salute ci pensa al posto tuo l’Oms e anche se
non ha le idee chiare sull’efficacia delle mascherine non è un dramma; per ciò
che riguarda la cultura ci pensa al tuo posto l’Unesco e anche se non ha le
idee chiare né sulla storia né su Israele non è il caso di farne un dramma
neanche qua; per ciò che riguarda la politica ci pensa al posto tuo l’Onu e
anche se la sua utilità pratica è prossima allo zero non se ne menerà scandalo.
Qui in mezzo, tra gli sproloqui, l’intellettuale resiliente si trova
perfettamente a suo agio perché le parole vuote, astratte, anzi estratte, le
parole che non corrispondono alle cose e che sono invincibilmente vacue fanno
non solo la sua felicità ma anche la sua professione. E come nel gioco teatrale
delle maschere di un Molière o di un Goldoni il vizio cerca di imitare la virtù
ma non vi riesce e cade nel grottesco, così l’intellettuale della resilienza,
che di volta in volta è un giornalista o un professore o uno psicologo o un
sociologo e perfino un economista, è una maschera grottesca in cui il vizio
crede di essere la virtù e si atteggia alzando l’occhio e la cresta come il
gallo sulla spazzatura di Mimì Rea.