di Giancristiano Desiderio
A volte qualcuno mi chiede se credo in Dio o se ho
fede. A farlo il più delle volte sono le donne, sia le giovani sia le adulte,
mentre gli uomini che credono di essere sempre già uomini di mondo e sono
eterni fanciulli si tengono alla larga dalle domande sulla fede. Rimango sempre
un po’ incerto sulla risposta, non per timore ma per pudore e cerco di
svicolare cambiando discorso. Ma, in realtà, il discorso ritorna come, per ora,
ritornano il sole e la luna e, allora, conviene affrontarlo. Dunque, lei crede
in Dio, ha fede?
Io credo nella dignità e nella libertà della vita
umana ma la mia fede non è la trascendenza religiosa. La fede nel Dio biblico e
nel Padre nostro è anche la mia fede -
perché il mio Dio non può non essere il Dio di Jacopone - ma è una fede senza mito religioso al quale,
in definitiva, si aggrappa l’egoismo umano per essere graziato e salvato
individualmente. Questo umanissimo e naturalissimo atto di egoismo che altro
non è che la vita che cerca di conservare sé stessa fin oltre la sua fine
non mi appartiene più e riconosco che la vita umana per quanto sia universale è
individualmente finita e destinata alla sua consumazione. La creazione della
vita umana passa inevitabilmente per la sua distruzione e le stesse parole del
Cristo sulla croce - Dio mio, Dio mio
perché mi hai abbandonato? - sono l’espressione
della vita libera degli uomini che non sarebbero se Dio, ritirandosi, non li
avesse abbandonati per farli esistere uccidendoli.
Esprimevo questi concetti in un articolo nei giorni
dell’agonia di papa Wojtyla e dicevo che anche i timori di un pontefice dinanzi
alla morte - anche se Karol Wojtyla
disse “lasciatemi andare” - non fanno
altro che restituirci le debolezze e le angosce dell’uomo. Lo scrittore Antonio
Pennacchi venne in redazione - a quel
tempo ero a L’Indipendente - e
disse che avrebbe voluto scrivere lui il mio pezzo. La cosa mi lusingò e tempo
fa recuperai anche l’articolo che poi, però, ho smarrito. Ma in quel pezzo
altro non feci che racchiudere in poche righe l’essenza del cristianesimo che è
la vera religione - quasi nel significato
hegeliano - che mette al mondo l’anima
umana e crea l’individuo. Se siamo individui
- persone individuate - lo
dobbiamo al cristianesimo che è l’unica rivoluzione riuscita perché ha riguardato
non la politica e il potere ma l’anima e da qui ha influito sullo stesso potere
dando a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio.
L’individuo una volta che è stato creato aspira, in
forza del suo amor proprio, a conservare sé stesso oltre sé stesso, come se
potesse vivere per sempre nella beatitudine del paradiso. In fondo, cos’è il
paradiso - essere presso gli dèi - se non la vita individuale senza il male? Ma
una vita senza il male non è concepibile se non nell’immaginazione, mentre
nella realtà ossia nella vita stessa la vita è tale proprio perché è il male,
il desiderio, la fame, il nutrimento, la voglia, la cupiditas per i
quali lo stesso pensiero giudaico-cristiano ha creato il “peccato originale”.
Il diavolo, che è la stessa manifestazione vitale di Dio, è la nostra ragion d’essere
con la quale e contro la quale viviamo e lottiamo per la conquista del
benessere e per la conservazione del bene superiore che è la nostra libertà,
sempre legata anima e corpo al male, al dolore, all’errore che ne costituiscono
il suo interno carburante. La beatitudine di un paradiso perduto mai avuto è
solo l’espressione del nostro edonismo con cui immaginiamo la vita come un’eterna
vacanza sull’isola dei beati mentre proprio il cristianesimo, alle sue radici e
nella sua radicalità, ci mostra come lo stesso peccato sia una felix culpa
che ci consegna alla nobiltà della condizione libera e del necessario lavoro
per conservarla.
La vita eterna è la condizione dei puri di cuore che o
riconoscono la purezza nella stessa impurità o sono dei fanatici o degli
impostori. L’altra notte ho sognato che, mentre morivo, un prete mi mostrava
delle lettere scritte dal Signore e trovate sulla sua scrivania (del prete, non
del Signore). Il prete mi mostrava le lettere e per indurmi alla
conversione - del tutto inutile perché fin
dal nome sono inchiodato al mio desiderio cristiano - ha messo in scena anche la venuta di Gesù. Un
sogno, solo un sogno turbato dal caldo. Nel quale pur si intravede la pratica
dei preti che si avvicinano all’anima dell’uomo morente nel tentativo di
estorcergli le parole di pentimento e di conversione nel momento dell’ultima
sua ora e della sua debolezza, mentre l’uomo nel vigore della vita si è tenuto
fedele alla vita stessa nella sua bellezza e dannazione, verità e falsità,
santità e perversione. Nel sogno ho esposto all’anima nera del sacerdote - una specie di diavolo tentatore - il mio credo religioso che è la religione
della libertà in cui la vita eterna è vivere e servire il Signore con letizia,
fino a quando lo stesso Signore che signoreggia la vita più di quanto noi non
riusciamo a fare ci dà la possibilità di sopportare la vita con sofferenze
dicibili perché, invece, quando le sofferenze sono condotte al limite dell’umano
è meglio che il Dio nascosto ci fulmini subito il petto.
La fede laica nella vita è la fede nella possibilità
di credere nella vita. Non è per nulla scontato perché la vita di suo è
sfuggente e noi non ne siamo i padroni ma i giocatori. La condizione umana,
infatti, è caratterizzata da una liquidità di fondo che non è di certo
invenzione originale di Bauman ma è presente da sempre fin dalle “origini” del
pensiero occidentale con Eraclito e quel senso del divenire che i Greci portano
alla luce del sole quando cala o tramonta il racconto mitico in cui i mortali
credono di poter vivere nella stessa dimora divina anche dopo la morte. Il
senso del divenire fa emergere il sentimento tragico che l’umanità, abbandonata
e vicina al divino, si porta in petto e in testa. La vita umana è un fiume che,
lo si voglia o no, ci porta via ma se vogliamo vivere una vita decente non
possiamo fare altro che avere fede nell’essere che diviene, altrimenti che la
vita sia Uno o sia Molti, per noi non c’è alcuna possibilità di esserci e siamo
destinati a perderci e dissolverci ancor prima del dissolvimento finale. A
volte accade e gli uomini si perdono proprio nella vita e i suoi desideri
infiniti e contrastanti, mentre per vivere più umanamente abbiamo pur bisogno
di fermare un sentimento e costruire nei limiti del possibile noi stessi e
divenire ciò che siamo o crediamo di essere. L’esistenza umana è fatta a scale,
si sale e si scende, oppure è insieme materia e forma o forma che è “abbassata”
a materia per essere ancora lavorata in una nuova forma. Noi siamo un viaggio
per mare e per terra tra Atene e Gerusalemme, siamo pagani e cristiani, siamo a
nostra stessa insaputa una forma di sapere in cui la vita con il suo albero
verde e rigoglioso si fa conoscere e coltivare per poi germogliare e fruttificare
nuova vita che vorrà ancora vita e vorrà ancora sapere di gloria in gloria, de
claritate in claritatem, di concetto in concetto come in una danza bacchica
nell’ordine delle idee e delle cose e del povero cuore umano. La regola
benedettina della preghiera e del lavoro è la forma che assume l’umanità una
volta che gli uomini non son più divisi in liberi e schiavi e tutti son
riconosciuti liberi perché tutti son redenti dal Dio ignoto che ci riconosce
degni di amore nella nostra vitale fragilità che tanto ci inorgoglisce nella
salute e tanto ci immiserisce nell’infermità.
E’ un po’ poco? Non so che farci. A me pare che la
vita quando sia concepita come un’opera vitale, come una sorta di Eros morale
- non può essere stretta o angusta
perché il suo ideale più alto e più nobile, la libertà, ha di per sé la realtà
nella quale quotidianamente si invera, fino al punto in cui le ombre e le
passioni, le cose misteriose e indicibili, naturali e soprannaturali, animali e
barbare e selvagge sono dette e mostrano la comprensibilità della storia umana,
la sua ferocia e la sua dannata bellezza.