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Il mio credo religioso

giancristiano desiderio
Pubblicato da in Povera e nuda · 2 Luglio 2019
Tags: Diocristianesimofedepapa

di Giancristiano Desiderio

A volte qualcuno mi chiede se credo in Dio o se ho fede. A farlo il più delle volte sono le donne, sia le giovani sia le adulte, mentre gli uomini che credono di essere sempre già uomini di mondo e sono eterni fanciulli si tengono alla larga dalle domande sulla fede. Rimango sempre un po’ incerto sulla risposta, non per timore ma per pudore e cerco di svicolare cambiando discorso. Ma, in realtà, il discorso ritorna come, per ora, ritornano il sole e la luna e, allora, conviene affrontarlo. Dunque, lei crede in Dio, ha fede?

Io credo nella dignità e nella libertà della vita umana ma la mia fede non è la trascendenza religiosa. La fede nel Dio biblico e nel Padre nostro è anche la mia fede  - perché il mio Dio non può non essere il Dio di Jacopone -  ma è una fede senza mito religioso al quale, in definitiva, si aggrappa l’egoismo umano per essere graziato e salvato individualmente. Questo umanissimo e naturalissimo atto di egoismo che altro non è che la vita che cerca di conservare sé stessa fin oltre la sua fine non mi appartiene più e riconosco che la vita umana per quanto sia universale è individualmente finita e destinata alla sua consumazione. La creazione della vita umana passa inevitabilmente per la sua distruzione e le stesse parole del Cristo sulla croce  - Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato? -  sono l’espressione della vita libera degli uomini che non sarebbero se Dio, ritirandosi, non li avesse abbandonati per farli esistere uccidendoli.

Esprimevo questi concetti in un articolo nei giorni dell’agonia di papa Wojtyla e dicevo che anche i timori di un pontefice dinanzi alla morte  - anche se Karol Wojtyla disse “lasciatemi andare” -  non fanno altro che restituirci le debolezze e le angosce dell’uomo. Lo scrittore Antonio Pennacchi venne in redazione  - a quel tempo ero a L’Indipendente -  e disse che avrebbe voluto scrivere lui il mio pezzo. La cosa mi lusingò e tempo fa recuperai anche l’articolo che poi, però, ho smarrito. Ma in quel pezzo altro non feci che racchiudere in poche righe l’essenza del cristianesimo che è la vera religione  - quasi nel significato hegeliano -  che mette al mondo l’anima umana e crea l’individuo. Se siamo individui - persone individuate -  lo dobbiamo al cristianesimo che è l’unica rivoluzione riuscita perché ha riguardato non la politica e il potere ma l’anima e da qui ha influito sullo stesso potere dando a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio.

L’individuo una volta che è stato creato aspira, in forza del suo amor proprio, a conservare sé stesso oltre sé stesso, come se potesse vivere per sempre nella beatitudine del paradiso. In fondo, cos’è il paradiso  - essere presso gli dèi -  se non la vita individuale senza il male? Ma una vita senza il male non è concepibile se non nell’immaginazione, mentre nella realtà ossia nella vita stessa la vita è tale proprio perché è il male, il desiderio, la fame, il nutrimento, la voglia, la cupiditas per i quali lo stesso pensiero giudaico-cristiano ha creato il “peccato originale”. Il diavolo, che è la stessa manifestazione vitale di Dio, è la nostra ragion d’essere con la quale e contro la quale viviamo e lottiamo per la conquista del benessere e per la conservazione del bene superiore che è la nostra libertà, sempre legata anima e corpo al male, al dolore, all’errore che ne costituiscono il suo interno carburante. La beatitudine di un paradiso perduto mai avuto è solo l’espressione del nostro edonismo con cui immaginiamo la vita come un’eterna vacanza sull’isola dei beati mentre proprio il cristianesimo, alle sue radici e nella sua radicalità, ci mostra come lo stesso peccato sia una felix culpa che ci consegna alla nobiltà della condizione libera e del necessario lavoro per conservarla.

La vita eterna è la condizione dei puri di cuore che o riconoscono la purezza nella stessa impurità o sono dei fanatici o degli impostori. L’altra notte ho sognato che, mentre morivo, un prete mi mostrava delle lettere scritte dal Signore e trovate sulla sua scrivania (del prete, non del Signore). Il prete mi mostrava le lettere e per indurmi alla conversione  - del tutto inutile perché fin dal nome sono inchiodato al mio desiderio cristiano -  ha messo in scena anche la venuta di Gesù. Un sogno, solo un sogno turbato dal caldo. Nel quale pur si intravede la pratica dei preti che si avvicinano all’anima dell’uomo morente nel tentativo di estorcergli le parole di pentimento e di conversione nel momento dell’ultima sua ora e della sua debolezza, mentre l’uomo nel vigore della vita si è tenuto fedele alla vita stessa nella sua bellezza e dannazione, verità e falsità, santità e perversione. Nel sogno ho esposto all’anima nera del sacerdote  - una specie di diavolo tentatore -  il mio credo religioso che è la religione della libertà in cui la vita eterna è vivere e servire il Signore con letizia, fino a quando lo stesso Signore che signoreggia la vita più di quanto noi non riusciamo a fare ci dà la possibilità di sopportare la vita con sofferenze dicibili perché, invece, quando le sofferenze sono condotte al limite dell’umano è meglio che il Dio nascosto ci fulmini subito il petto.

La fede laica nella vita è la fede nella possibilità di credere nella vita. Non è per nulla scontato perché la vita di suo è sfuggente e noi non ne siamo i padroni ma i giocatori. La condizione umana, infatti, è caratterizzata da una liquidità di fondo che non è di certo invenzione originale di Bauman ma è presente da sempre fin dalle “origini” del pensiero occidentale con Eraclito e quel senso del divenire che i Greci portano alla luce del sole quando cala o tramonta il racconto mitico in cui i mortali credono di poter vivere nella stessa dimora divina anche dopo la morte. Il senso del divenire fa emergere il sentimento tragico che l’umanità, abbandonata e vicina al divino, si porta in petto e in testa. La vita umana è un fiume che, lo si voglia o no, ci porta via ma se vogliamo vivere una vita decente non possiamo fare altro che avere fede nell’essere che diviene, altrimenti che la vita sia Uno o sia Molti, per noi non c’è alcuna possibilità di esserci e siamo destinati a perderci e dissolverci ancor prima del dissolvimento finale. A volte accade e gli uomini si perdono proprio nella vita e i suoi desideri infiniti e contrastanti, mentre per vivere più umanamente abbiamo pur bisogno di fermare un sentimento e costruire nei limiti del possibile noi stessi e divenire ciò che siamo o crediamo di essere. L’esistenza umana è fatta a scale, si sale e si scende, oppure è insieme materia e forma o forma che è “abbassata” a materia per essere ancora lavorata in una nuova forma. Noi siamo un viaggio per mare e per terra tra Atene e Gerusalemme, siamo pagani e cristiani, siamo a nostra stessa insaputa una forma di sapere in cui la vita con il suo albero verde e rigoglioso si fa conoscere e coltivare per poi germogliare e fruttificare nuova vita che vorrà ancora vita e vorrà ancora sapere di gloria in gloria, de claritate in claritatem, di concetto in concetto come in una danza bacchica nell’ordine delle idee e delle cose e del povero cuore umano. La regola benedettina della preghiera e del lavoro è la forma che assume l’umanità una volta che gli uomini non son più divisi in liberi e schiavi e tutti son riconosciuti liberi perché tutti son redenti dal Dio ignoto che ci riconosce degni di amore nella nostra vitale fragilità che tanto ci inorgoglisce nella salute e tanto ci immiserisce nell’infermità.

E’ un po’ poco? Non so che farci. A me pare che la vita quando sia concepita come un’opera vitale, come una sorta di Eros morale -  non può essere stretta o angusta perché il suo ideale più alto e più nobile, la libertà, ha di per sé la realtà nella quale quotidianamente si invera, fino al punto in cui le ombre e le passioni, le cose misteriose e indicibili, naturali e soprannaturali, animali e barbare e selvagge sono dette e mostrano la comprensibilità della storia umana, la sua ferocia e la sua dannata bellezza.



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