di Giancristiano Desiderio
La crisi del Napoli mi ha portato alla mente un’osservazione
che il Nicolini fa su Croce e che in realtà era quanto lo stesso filosofo
napoletano diceva di sé: “Io sono come il Vesuvio che sopra ha la neve e sotto
ha il fuoco”. Solo che, per disgrazia dei tifosi napoletani, il fuoco vesuviano
della squadra di Insigne è autodistruttivo e non sacro come quello di Croce che
generò un’opera perenne. In men che non si dica il Napoli, da modello che era
per la stessa città, è diventato una sorta di banda di scarpa sciolta in cui
ognuno fa un po’ come gli pare e quando si scende in campo tutti hanno una
fottutissima paura di perdere perché non sanno come si vince. La vittoria è un
pallido ricordo per una squadra che all’inizio del campionato non nascondeva l’ambizione
di vincerlo e ora si ritrova a metà classica ma più vicino alla coda che alla
testa. Tuttavia, quanto accaduto - il ritiro, la ribellione, la contestazione -
non si spiega nemmeno con le sconfitte e i pareggi. Naturalmente, se ci fossero
stati i risultati non ci sarebbe stato il dramma con lo scontro tra presidente
e giocatori e, tuttavia, sotto la cenere il fuoco avrebbe continuato a
fiammeggiare.
Dunque, il problema non è quanto accade oggi ma quanto
accadeva ieri e non veniva detto per la troppa indulgenza e soprattutto per
quel piagnisteo tipicamente partenopeo che non fa i conti con sé stesso e alla
critica preferisce la retorica, al realismo sostituisce l’enfasi e quando si
tratta di spiegare le sconfitte si ricorre agli alibi e alle dietrologie, così
le responsabilità non sono mai proprie ma sempre degli altri che complottano
per non far vincere il Napoli. Sarri va via? Venduto. Higuain va alla Juve?
Giuda. L’arbitro sbaglia? E’ in malafede. Peccato che il Napoli - come squadra,
società e tifoseria - in una notte di coppa esploda come il Vesuvio e tutto
viene scoperchiato davanti al mondo. Il fuoco che stava sotto viene fuori e il
vulcano, evocato dalla tifoseria scaligera con l’orrida frase “Vesuvio lavali
col fuoco” alla quale si rispondeva alla Shakespeare “Giulietta è ‘na zoccola”,
erutta e viene fuori il peggio del peggio con scene e sceneggiate che riportano
il Napoli all’era precedente l’arrivo di Maradona.
Costruire una squadra di calcio vincente è cosa
difficile. Non basta giocare a pallone. Serve una società seria e una tifoseria
che non oscilli tra la retorica e il complottismo, i giocatori che ora
diventano deì e ora sono fannulloni. E, non ultimo, serve giudicare il calcio e
le partite in modo severo, senza giustificare le sconfitte con gli alibi e con
i pregiudizi ma chiedendo a sé stessi sempre qualcosa di più accettando le
critiche che vengono dagli altri come uno stimolo per migliorarsi. Come accade
con la storica frase, conosciuta anche da Goethe, che vuole che Napoli sia un
paradiso abitato da diavoli e che Croce sapeva non esser vera ma suggeriva di
accettare come se fosse stata vera per avere un motivo in più per progredire e
diventar migliori. Insomma, l’esatto contrario della mentalità vittimistica. Invece,
negli ambienti calcistici napoletani, sia in quelli signorili sia in quelli
plebei, si è sempre coltivata la cultura del vittimismo che dalla tifoseria
calcistica ha tracimato nella società e nei social con l’autoesaltazione di
quel neoborbonismo che tra falsità, manipolazioni e goffaggini ha finito per
creare un danno alla stessa grande cultura napoletana e alla sua storia.
Non basta, dunque, ora criticare la squadra e la
società perché ciò che è venuto meno era un mito bugiardo che, come accade a
tutte le cose posticce, si è dissolto a contatto con la realtà che era stata
coperta con la insostenibile retorica del piagnisteo che indica sempre negli
altri le colpe, le responsabilità, i tradimenti e quando tutto salta per aria crede
di salvare sé stessa ricorrendo alla eterna logica del capro espiatorio che in
questo caso è visto in Insigne che un tempo era esaltato e ora è fischiato. Ma
i fischi di oggi sono due volte ingiusti perché era sbagliata l’esaltazione di
ieri per un giocatore assolutamente modesto scambiato senza senso del ridicolo
e senza giudizio calcistico con l’eleganza di un Laudrup o il morso di Butragueno.