di Luigi Ruscello
In un precedente intervento ho formulato la mia
ipotesi sulle motivazioni alla base del fiorire di numerosissime associazioni
nostalgiche del Regno delle Due Sicilie, che vanno sotto il nome di neo-borbonismo.
Una prima osservazione, però, riguarda il fatto che,
pur essendo palese l’intento antiaccademico e, comunque, contro la storiografia
"ufficiale", il fenomeno è stato largamente sottovalutato.
Pur essendo vero che i modi e le forme in cui si
esprimono sfiorano talvolta il ridicolo, non è stato considerato nella giusta
misura il fattore “pancia”, cioè che l’opinione pubblica è attratta più da considerazioni
emotive che ragionate. Come è stato giustamente osservato, infatti, il consenso non si muove in base al grado di istruzione delle
parti in causa, ma solo all'empatia che si genera tra di loro.
Il successo di questi movimenti, quindi, è
dato dalla semplicità degli argomenti utilizzati, quasi tutti rivolti alla comprensione
immediata e non all’intelligenza. Basti pensare alla tesi dello sterminio, se
non di milioni, di centinaia di migliaia di meridionali. E il più emblematico di
tutti è sicuramente il presunto eccidio di Pontelandolfo, che però è stato
recentemente sbugiardato da un ottimo testo di Giancristiano Desiderio (Pontelandolfo 1861. Tutta un’altra storia,
Rubbettino, 2019).
Non
si può non essere d’accordo, quindi, con chi ha sostenuto che, come i veri
borbonici dell’Ottocento, i neo-borbonici non vanno oltre il risentimento e il
rimpianto della sconfitta.
Tuttavia, come è stato giustamente
osservato, nonostante queste caratteristiche e le indignate prese di
posizione delle associazioni degli storici, bisognerebbe, forse, attutire i toni e puntare a un
discorso critico e privo di stereotipi e pregiudizi, che non mancano nemmeno
tra gli studiosi di professione.
È da notare, al riguardo, che tali associazioni di
storici non si sdegnano allo stesso modo, o addirittura per niente, quando
concetti e espressioni utilizzate dalle variegate associazioni sono espresse da
personaggi di valenza nazionale come, ad esempio, Eugenio Scalfari o Adriano
Giannola. Al primo, infatti, sarà forse anche sfuggito, ma ha affermato: “Perfino il regno di Napoli, a quel punto,
era molto più ricco e potente del Piemonte.”; mentre, il secondo, nel corso
di un’intervista, ha affermato che “L’Italia ha un Nord forte e poi ha una
colonia che è il Sud.”.
Come
tutte le vicende umane, tuttavia, anche questi movimenti, e segnatamente quei
pochi che non esagerano nei toni e nei modi, hanno un lato positivo, cioè
quello di rappresentare una sorta di controinformazione a quello che può essere
definito un vero e proprio processo di disinformazione scientifica, come, ad
esempio, quello posto in atto sin dagli anni Cinquanta del secolo scorso a
proposito del cosiddetto intervento speciale per il Mezzogiorno (solo di nome).
In
conclusione, la miriade di movimenti nati a difesa della memoria del Regno
delle Due Sicilie, fatte le poche ma dovute eccezioni, sono quanto di più
fuorviante e controproducente si possa immaginare affinché la questione
meridionale possa avere una minima speranza di abbandonare il carattere di causa
perduta.
Sono
fuorvianti perché, nel ricordare ossessivamente i presunti primati del Sud,
generano solo un sentimento di rancore, come peraltro il Censis ha certificato
in via più generale per l’intera Italia.
Sono
controproducenti perché la più diretta conseguenza è quella di non condurre ad
un sano mea culpa noi meridionali e
ad assumere, da sconfitti, conseguenti comportamenti virtuosi.