di Luigi Ruscello
Sui mezzi di
informazione, sempre con maggiore insistenza, si susseguono interventi che
segnalano una crescente emorragia di giovani laureati dal Sud.
A colmare la
lacuna informativa ha provveduto l’Istat, con il quinto Rapporto Bes (Benessere Equo e Sostenibile) edito a
giugno 2018 ed aggiornato al 2016, in cui, da un lato, ha approfondito le
caratteristiche del capitale umano con alti livelli di educazione e, dall’altro,
la capacità di attrarre/trattenere risorse professionali.
Il nuovo indicatore
sulla Mobilità dei laureati italiani considera il bilancio netto (guadagno o
perdita) dovuto alle migrazioni della componente più giovane e istruita di
popolazione. L’indicatore è calcolato, infatti, come rapporto tra il saldo dei
laureati italiani in entrata/uscita da/verso l’estero (o un’altra regione) e il
totale dei laureati italiani di età 25-39 anni residenti.
Ebbene, nel
2016 il tasso è negativo, indicando così una perdita netta di laureati italiani
pari al 4,5 per 1.000. Ma questo dato non è una novità, poiché non fa altro che
confermare il trend degli ultimi anni (-2,4 per 1.000 nel 2012 e -4,2 per mille
nel 2015). In valori assoluti si ha che, nel 2016, circa 16 mila giovani
laureati hanno lasciato il nostro paese e poco più di 5 mila sono rientrati.
Il problema,
però è che tutte le regioni hanno un saldo migratorio di laureati italiani negativo
a livello internazionale,
comprese Lombardia ed Emilia-Romagna: queste ultime infatti conquistano terreno
in termini assoluti solo se alle “perdite” verso l’estero si aggiungono i “guadagni”
legati alla mobilità interregionale di laureati (quelle dal Sud al Nord).
Tanto
premesso, non comprendo la meraviglia provocata da tali dati perché mi sembra
fin troppo ovvio che, se non vi sono adeguate opportunità di lavoro oppure ne
mancano proprio, l’unica soluzione è quella di “emigrare”.
È per questo
motivo che, in un intervento dell’ormai lontano 2009, mi permisi criticare una
proposta dell’allora segretario del PD, Dario Franceschini. Quest’ultimo, infatti,
a proposito di Mezzogiorno propose, tra l’altro, uno stage di sei mesi e un anno di retribuzione a carico dello Stato
per centomila giovani laureati o diplomati con un costo di 500 milioni.
Detto per inciso, all’epoca non si parlò di assistenzialismo, forse perché la
proposta veniva dai cosiddetti “progressisti”.
La mia
obiezione di allora, purtroppo ancora valida, fu la seguente: al di là del
costo molto contenuto, mi permetto osservare che le conseguenze sarebbero a dir
poco catastrofiche, in quanto otterrebbero proprio l’effetto contrario a quello
desiderato. Mi chiedo e chiedo: una volta “super formati”, questi giovani dove
troverebbero la loro allocazione? Mi sembra quanto mai evidente che, se
nell’arco temporale di un anno e mezzo non fossero disponibili centomila posti
di lavoro, due sarebbero le dirette conseguenze: si creerebbe un numero
elevatissimo di lavoratori precari e si favorirebbe vieppiù la loro
emigrazione.
Insomma, la
conclusione di ieri e di oggi è che istruirsi fa certamente bene, ma se non si
rinforza il sistema produttivo meridionale, e direi anche nazionale, l’emorragia
continuerà ancora.