di Gennaro Malgieri
Il mito e la storia. Non è
infrequente che il primo si sovrapponga alla seconda determinando distorsioni
ed incomprensioni sul passato che favoriscono polemiche finanche perniciose sul
presente. È il caso di taluni atteggiamenti appunto “mitologici” che hanno
condizionato la conoscenza delle dinamiche, tutt’altro che chiare e
condivisibili sia chiaro, del processo di unificazione nazionale. Insomma, se è
vero che lo Stato nazionale di matrice sabauda non ha avuto un percorso felice,
ma ha prodotto lacerazioni civili, morali e culturali che si sono trascinate
fino ai nostri giorni, è anche vero che talune mitizzazioni dei presunti
crimini degli “unionisti” hanno contribuito ad allontanare ancor più il
sentimento patriottico che, dopo oltre centocinquant’anni, sarebbe auspicabile
vedere assunto come valore primario di riferimento della comunità nazionale.
Tra i motivi divisivi vi è stata a
lungo – ed ancora oggi sembra piuttosto in auge – la famosa strage di
Pontelandolfo, in provincia di Benevento, perpetrata dall’esercito piemontese
il 14 agosto 1861. La disputa ha preso nuovo vigore, dopo una lunga stagione di
indifferenza scambiata per acquisita pacificazione, con la pubblicazione di
alcuni testi di rivalutazione del Regno delle Due Sicilie a compensazione dei
tanti menzogneri addebiti costruiti sui Borbone ed in particolare sulla
conquista del reame. Questo intento, accettabile e assolutamente necessario al
fine di comprendere l’essenza della nazione italiana in tutte le sue
componenti, è stato appunto inficiato parzialmente dalle leggendarie e lugubri
gesta propalate al fine di delegittimare totalmente un’operazione che fu
senz’altro bellica, diplomatica, politica – se si vuole contestabile da molti
punti di vista oppure giustificata da altri – ma che non può essere vista con
la lente della falsificazione di eventi come quello di Pontelandolfo.
Giancristiano Desiderio, studioso
serissimo di filosofia ed appassionato cultore di storia patria, alieno dal
piegarsi ai pregiudizi e rispettoso dei sentimenti di tutti, oltre che aperto a
qualsivoglia confronto purché scevro da idiosincrasie e postulati ideologici,
ha tentato di fare chiarezza su quell’eccidio ricostruendone la vicenda da
cui scaturì e dunque dando luogo ad una innovativa narrazione dei fatti su cui
si sono fondati i risultati di certa storiografia di parte. La conclusione ha
suscitato polemiche tanto che il suo libro, Pontelandolfo 1861. Tutta
un’altra storia (Rubbettino, pp. 147, € 14), ha anche
provocato una discussione salutare sia pure dai toni particolarmente accesi
attizzati più che dagli storici, dai fautori addirittura della restaurazione
borbonica, una tentazione che di tanto in tanto riemerge, purtroppo mettendo in
ombra un’indagine seria sul Regno delle Due Sicilie, sul governo delle sue
classi dirigenti, sul molto di buono che i cinque sovrani della dinastia
– da Carlo III a Francesco
II – promossero e sulle discutibili influenze straniere
che determinarono la caduta traumatica di quella monarchia e con essa
l’esasperazione dell’impoverimento del Mezzogiorno d’Italia.
Ma tutto ciò è materia di discussione
e di approfondimento storico, come hanno fatto studiosi attenti e per nulla
condizionati dalle pur legittime simpatie nutrite di parte borbonica, che non
lascia spazio alle favole oscure che impediscono appunto l’obiettivo di una
rivendicazione delle verità negate nel processo unitario. Pontelandolfo è il
paradigma di tutto ciò. Desiderio ne tratta con cognizione di causa facendo
giustizia, appunto, delle leggende assumendosi la responsabilità – sorretta da
indiscutibili dati di fatto documentati dalle testimonianze e dai numeri
oggettivi – di attribuire l’eccidio che pur ci fu all’azione criminale di un gruppo
particolarmente agguerrito di briganti sanniti che, assassinando quarantadue
soldati piemontesi, determinarono una rappresaglia che fece tredici morti in un
incendio appiccato deliberatamente nel piccolo centro sannita. Certo, fu
un crimine perché nelle fiamme perirono uomini e donne che non avevano
nessuna possibilità di difendersi e soprattutto non erano responsabile
dell’eccidio dei bersaglieri. Una cifra lontanissima dalle centinaia o migliaia
di vittime delle quali si è parlato e su cui sono stati costruiti ponderosi
volumi.
Sia chiaro, una o molte più persone,
perlopiù innocenti, cadute per mano di soldati di un esercito considerato
invasore o liberatore, a seconda dei punti di vista, è pur sempre condannabile.
E su questo la disputa resterà accesa per chissà quanto tempo ancora, senza che
nessuno possa legittimamente gloriarsene. Così come gli assassinii
perpetrati dai briganti, fatti passare per “legittimisti”, non
possono essere assolti invocando la difesa di principi e territori posto
che a nessuno di essi era stato dato un tale mandato.
Insomma, fu una “guerra civile” i cui esiti conosciamo. E
se provassimo a fare il discorso inverso, vale a dire ad immaginare
un’iniziativa borbonica o papale volta a ricomporre i frammenti della nazione
italiana, probabilmente il risultato non cambierebbe. Sarebbero stati diversi
gli attori stranieri che avrebbero avuto ruoli decisivi dell’operazione come li
ebbero gli inglesi nella invasione del Regno borbonico, ma nessuno si sarebbe
sentito al riparo da quanto accadeva poiché è nella natura di eventi del genere
suscitare contrapposizioni sanguinose da far definire il tutto ad un grande
romanziere del Novecento con la passione della storia, Carlo
Alianello, che si trattò di conquista del Sud quella
culminata nel fatidico 1861.
Ma da qui alla falsificazione di
alcuni tragici eventi ce ne corre. Ed è per questo che Desiderio, con la sua
onestà intellettuale, nel demolire i castelli che hanno abbagliato una certa
storiografia fondata sul racconto di parte, preferisce far entrare luce negli
archivi per concludere che tutti i documenti “sconfessano il mito della
controstoria e dicono che l’ordine di intervenire sull’Alto Sannio non fu
concepito come vendetta e mostrano che nell’incendio morirono tredici persone”.
Questa è la storia. La morale è tutta
un’altra cosa. E Desiderio ne è consapevole. Molto opportunamente scrive, anche
per sgombrare il campo da insinuazioni malevole che lo vorrebbero correo
postume delle “nefandezze” dei piemontesi: “La lotta tra il bene e il male
appartiene a ognuno di noi e nella storia è un dramma che attraversa
trasversalmente la scena per cui il bene può apparire nel brigante che si
sacrifica per salvare la sua donna o nel possidente che tradisce il suo sovrano
e, al contrario, il male può esprimersi nel brigante che ricatta e assassina e
nel prete confonde e usa le anime dei semplici, mentre il bene si rivela nel
bersagliere che sacrifica se stesso per la patria italiana e nel borghese che
crede e opera nella libertà”.
Una annotazione importante che
conferisce al libro – o meglio all’indagine – il valore di una testimonianza
postuma sulla verità e sulla negazione della pietà fondata sulla
falsificazione. In questo Desiderio rivela la nobiltà del suo intento che non
poteva non suscitare reazioni scomposte o incomprensioni accademiche
interessate, quasi che la “guerra” tra italiani fosse ancora in corso. È questo
il problema nodale della questione. Che fino a quando non sarà risolto in una
vera e propria “pacificazione” storica, alimenterà le incomprensioni tra un
nord ed un sud indiscutibilmente divisi, per quanto possa sembrare il
contrario, al punto che l’eccessiva pretesa regionalizzazione in salsa
“nordista” sembra condannare – e spero che non appaia come una bestemmia – ad
un ritorno al “mito” di Pontelandolfo un Paese che lentamente, ma
progressivamente sta scivolando fuori dall’Europa e dalla storia di domani.
A tamponare questa “ferita” potrebbero soccorrere proprio
quei testi di matrice borbonica che sottolinearono nel tempo della bufera
unitaria, raccolta come speranza da taluni e sciagura da altri, l’indiscutibile
legame europeo di un reame che si sentiva ed era italiano a tutti gli effetti,
come dimostrano i saggi monumentali di Giacinto
de’ Sivo e di Raffaele
de Cesare. Il primo, ricorda con equanimità
Desiderio, non solo era un buon letterato, ma scrisse la Storia del Regno delle Due
Sicilie senza mostrare alcun risentimento o uno spirito
livoroso a testimonianza che si poteva essere fedeli al proprio mondo senza per
questo chiudersi al nuovo che avanzava.
Oggi possiamo soltanto accettare che l’Italia “fu fatta in
un altro modo”, come asserisce Desiderio. E noi non possiamo che prenderne
atto. Ciascuno poi ha la facoltà di ritenere – e questo sarebbe un
atteggiamento serio e “patriottico” – che quel Regno, maledetto da William
Ewart Gladstone per motivi tutt’altro che
ideali, ispirati dalla volontà dell’Inghilterra di colonizzarlo, non era una
sorta di “negazione di Dio eretta a sistema di governo”, ma una vera e propria
nazione nella quale in meno di un secolo fiorirono arti, scienze, tecnologie,
innovazioni, grandi opere e sperimentazioni sociali di eccezionale
interesse tali da suscitare ammirazione in buona parte dell’Europa tra
chi aveva ben chiaro il “miracolo” della coniugazione della
bellezza con la modernità realizzato nel Regno dove pure convivevano
contraddizioni stridenti, ma non tali da oscurare lo splendore di Napoli e di
territori arricchiti da monumentali dimore che ancora oggi costituiscono un
eccezione patrimonio rivelatore di sensibilità e cultura da parte dei regnanti.
Anche questa è una verità
inoppugnabile. E non bisogna essere filo-borbonici per ammetterla. Così come la
caduta del Regno non è stata ignobile, per quanto le responsabilità politiche e
amministrative delle classi dirigenti siano palesi ed incontestabili.
Tutti comunque all’epoca, perfino i detrattori più
ostinati, riconobbero dignità, audacia e valore all’ultima regina di
Napoli, Maria Sofia von Wittelsbach di
Baviera – “l’Aquiletta
bavara”, secondo Gabriele d’Annunzio –
che prese il comando vero e proprio della piazzaforte di Gaeta dove si consumò
l’ atto estremo del reame morente.
Pontelandolfo con i suoi tredici morti è parte
dell’identità nazionale. Come tutto il resto, dai soldati gigliati caduti al
Garigliano e tenacemente ignorati ai bersaglieri uccisi negli stessi paraggi
onorati con un cippo che ne ricorda il sacrificio. La storia va così. I vinti
hanno sempre torto. Ma neppure ai loro sostenitori postumi è concesso di
mentire. Ce lo ricorda un libro coraggioso, Pontelandolfo 1861,
destinato a non essere dimenticato per la forza delle idee e della ragione che
lo hanno ispirato.
Tratto
da formiche.net del 30 marzo 2019