di Giancristiano Desiderio
La
poetica del fallo laterale
Fernando
Acitelli, La solitudine dell’ala destra
Trentaquattro
anni fa. Napoli – Juventus. Porta della curva sud. Secondo tempo. 27° minuto.
Punizione a due in area di rigore (oggi è cosa rarissima, estinta) della
squadra di Trapattoni. Eraldo Pecci e Maradona sulla palla. Platini in
barriera. Pecci a Maradona: “Da qui non si segna. E’ impossibile”. Maradona a
Pecci: “No palabras. Dammi la palla”.
Pecci tocca piano con tacchetti e suola. Maradona mette el pibe sotto. La barriera è a cinque metri scarsi. La palla si
alza e non fa in tempo a scendere che è già in rete, mentre Tacconi si
accartoccia al palo sinistro e il San Paolo è in Cielo. Enrico Ameri non crede
a ciò che ha visto e si ingarbuglia con le parole. Non palabras, non parole. Dammi la palla. Più che una punizione,
una poesia. Maradona, accarezzandola, aveva preso la palla per il verso giusto.
Trentaquattro
anni dopo si rigioca, come ogni anno, quella partita. Mi è tornata alla mente
quella punizione - che in tanti diranno magica, altri diranno sfuggire alle
leggi della fisica - dopo aver letto la poesia di Mimmo Liguoro dedicata
all’argentino- napoletano nel volumetto di versi epico-calcistici La testa nel pallone con profili in
versi da Monzeglio a Maradona in cui il giornalista cerca di prendere il calcio
per il verso giusto, quello estetico.
Quando il piede sinistro
toccava il pallone,
uno stormo di bianchi colombi
s’innalzava in volteggio,
stralunando portieri e terzini,
trasformando i minuti del gioco
in orgasmo di fiaba,
e fermando nel tempo dei sogni
orologi
stremati.
Un
anno e mezzo dopo quel 3 novembre 1985, Napoli e Diego Armando avrebbero vinto
il loro primo scudetto. Tuttavia, quel gol impossibile che Maradona sentiva nel
piede e nella sensibilità della gamba sinistra che gli risaliva dalla caviglia
alla testa - perché un grande calciatore
certe cose le sente, le avverte, le anticipa in immagine - segna il punto
d’incontro tra el pibe de oro e il
Napoli e Napoli che da quel momento ha ritrovato un pescivendolo, un re, un
lazzaro, una maschera, un corpo, un ideale, un giocatore in cui credere per
vivere e rivedere la vita, piangere e fottere.
La
sfida di oggi con la Juventus di Cristiano Ronaldo - CR7, una formula di una
tristezza aerea infinita - è cosa molto diversa. Sono tanti i punti di
differenza tra le due squadre e il Napoli, nonostante i sogni di grandezza,
accoglie la Juventus come fa una squadra minore con la prima della classe.
Trentaquattro anni fa era un’altra cosa. Era un’altra storia. In campo c’erano
Platini e Maradona e il Napoli iniziava a vivere come in un sogno. Era quello
un altro calcio che oggi rivediamo nella sua eterna freschezza come fosse, e lo
è, l’eterna incarnazione delle idee platoniche che danno forma alle acque
eraclitee della vita e del campo da gioco.
E’ cosa strana legare
calcio e filosofia, calcio e poesia? E’ la cosa più umana e più naturale che vi
sia che risale alle cose nascoste e visibili fin dalla fondazione del mondo. E’
il Gioco di cui facciamo parte e del quale siamo insieme, come giocatori in
campo e sugli spalti dell’esistenza, alla maniera del centromediano Hegel servi
e padroni, signori e schiavi per la gioia e il dolore di vivere e liberarci.
Anche Leopardi, che rimase schiacciato dal peso di una vita fatale, vide
nell’eroe Carlo Didimi di Treia, campione nel gioco del pallone, un raggio di
luce e del giocatore - giocatore che, in questo caso, non è un calciatore - fece
un esempio al quale ispirarsi per affrontare lotte e travagli con i versi,
forse non facili, di A un vincitore nel
pallone che così inizia:
Di gloria il viso e la gioconda voce,
Garzon bennato, apprendi,
E quanto al femminile ozio sovrasti
La sudata virtude. Attendi attendi,
Magnanimo campion (s’alla veloce
Piena degli anni il tuo valor contrasti
La spoglia di tuo nome), attendi e il core
Movi ad alto desio. Te l’echeggiante
Arena e il circo, e te fremendo appella
Ai fatti illustri il popolar favore;
Te rigoglioso dell’età novella
Oggi la patria cara
Gli antichi esempi a rinnovar prepara.
E’ la solitudine dell’ala destra, come direbbe Ferdinando Acitelli -
dove sei amico mio - che mi spinge ancora a correre su e giù sotto il campanile
della chiesa della Santissima Assunta per inseguire le forme della vita che
passano in una partita di calcio. Trentaquattro anni fa, come ieri, come oggi.
Così è sempre stato, così sempre sarà. Perché le cose belle e impossibili si
ripetono in eterno, salve come sono nella pianura platonica della verità.
Maradona nella sua vita ha fatto tante cose, belle e brutte, ha detto tante
scemenze, tutto e il contrario di tutto, ma la coerenza non era il suo forte e,
per fortuna, non lo è di nessuno perché l’unico davvero coerente al mondo è
solo il pallone che bisogna saper accarezzare. Leo Messi chiese a Maradona come
calciare al meglio la punizione. E Maradona rispose con parole di poesia, forse
ricordando Pecci che gli diceva: “Da qui non si segna. E’ impossibile”:
Non muovere il piede troppo velocemente
Perché altrimenti la palla
Non sa cosa vuoi da lei.
Devi farle capire la traiettoria
Che vuoi darle.