di Giancristiano Desiderio
I
lettori che, bontà loro, mi seguono avranno forse piacere a sapere che posso
dar loro aggiornamenti, arricchimenti e approfondimenti dei fatti di
Pontelandolfo. In particolare, cosa accadde quando la banda di Cosimo Giordano “tradì”
i pontelandolfesi e abbandonò Pontelandolfo, mentre i soldati del colonnello
Negri facevano il loro ingresso nel paese governato per sette lunghi giorni da
don Epifanio (il “maledetto arciprete”, come lo definisce il pontelandolfese
Antonio Pistacchio).
Devo
avvertire i miei lettori e dir loro che, però, rimango fedele alla massima di
Longanesi secondo la quale in Italia non c’è nulla di più inedito di ciò che è
stato edito. Questa stravaganza ermeneutica rende i fatti di Pontelandolfo e di
Casalduni singolarmente interessanti perché, in fondo, non c’è nulla di nuovo
sotto il sole e, tuttavia, c’è tutto di nuovo sotto il sole. A dimostrazione,
se ce ne fosse bisogno, che solo ora il problema-Pontelandolfo è diventato effettivo
problema storico.
Le
novità saranno pubblicate nella loro interezza nella seconda edizione di Pontelandolfo 1861. Tutta un’altra storia
(Rubbettino) che, visto il successo del libro sia per la vendita, sia per l’accoglienza - perfino di coloro che tacciono e nessun
silenzio fu mai così eloquente -
arriverà presto. Così, i lettori considerino il “pezzo” che segue come
un nuovo capitolo del libro e le pagine di questo blog di un dilettante come
una rivista di studi che anticipa lavori e testi. Dunque, i fatti.
Le
prime truppe che entrarono in Pontelandolfo furono i soldati della Guardia
Nazionale guidati dal patriota sannita Giuseppe De Marco. Avevano un compito
preciso: salvare la popolazione facendola scappare e riversare nella campagna e
segnare le case che non andavano incendiate. Dunque, a salvare i
pontelandolfesi furono gli stessi soldati di Giuseppe De Marco che proprio i
pontelandolfesi nei primi giorni di agosto avevano osteggiato e di fatto
allontanato dal paese. C’è la prova? Sì, ci sono chiari documenti che ci dicono
che la Guardia Nazionale con De Marco mise in salvo la popolazione sfollando il
paese.
Ugo
Simeone, nel citato libro Il Brigantaggio
nel Beneventano dopo l’Unità d’Italia, dedica a questo passaggio specifico
dell’ingresso delle truppe in paese un paio di pagine e a sua volta cita alcuni
documenti - il manoscritto di Antonio
Pistacchio, la testimonianza del sergente Sacchi rilasciata al giornale La Perseveranza, l’Archivio di Stato di
Napoli, documenti ai quali si deve aggiungere l’importante memoria di don
Mastrogiacomo - che ci dicono tutti la
stessa cosa: i soldati di Giuseppe De Marco salvarono - con una particolare e significativa
eccezione - vite e case.
Tra
le famiglie salvate - praticamente tutte
se si considera che i morti furono tredici -
ci fu quella del cancelliere regio Carmine Gentile di Boiano. Lo stesso
cancelliere Gentile, che al momento dell’arrivo dei soldati era fuori
Pontelandolfo, si rivolse successivamente al governo per ottenere un
risarcimento dei danni subiti e la sua supplica o il suo rendiconto, con il
racconto dei fatti, è così riportato nell’Archivio di Stato di Napoli – Alta
Polizia – Fascicolo 180 – Fascicolo 6088:
“All’alba del 14 agosto giungeva in
Pontelandolfo una forza imponente. Faceva sortire dal letto la famiglia
dell’esponente ad andar via appena vestita degli abiti di casa, come per altre
famiglie di donne e ragazzi e quindi a poco si dava il paese in preda alle
fiamme sterminatrici”.
Come
si può capire, è un documento prezioso che, proprio nella parte in cui dice che
i soldati spinsero la famiglia ad andar via, trova riscontro sia con i fatti,
sia con altri documenti: come la testimonianza del Pistacchio, il libro di
Egildo Gentile, la memoria di Nicolina Vallino, il diario di don Mastrogiacomo.
In particolare, il resoconto scritto dal Pistacchio è importante sia per ciò
che riguarda l’incendio, sia per ciò che riferisce sui morti. La lista delle
case che furono salvate non è breve e il Pistacchio - che qui, come detto, si cita nella versione
del manoscritto che ne diede Carlo Perugini nel 1998 con Agosto 1861. Memorie di quei giorni - la fornisce con alcuni particolari che, pur
secondari, fanno capire che il paese non fu distrutto. Del resto, anche la
fondamentale memoria di don Mastrogiacomo, sulla quale ci si sofferma più
innanzi, conferma che il paese non fu raso al suolo.
Ecco,
dunque, cosa dice il Pistacchio per ciò che riguarda l’incendio:
“Entrando, però, volli osservare quali case
si erano salvate dall’incendio. In quella di don Nicola Rinaldi, che è fuori al
paese, l’incendio fu smorzato dai briganti medesimi perché il proprietario
regalò in riscatto la somma di seicento ducati.
Quella di Iadonisio e le
altre casupole fino a san Felice, si erano salvate la prima perché fu
raccomandata dal colonnello De Marco e le altre perché vi erano prostitute che
cucinavano per i soldati.
Si erano salvate anche
diverse case di miserabili all’entrata a sinistra di san Felice fino al Casaleno
di Coscia. Si erano salvate perché si sapevano abitate da povera gente
infelice.
Si era salvata anche la
casa di don Filippo Lombardi, quella di don Giovannino Perugini, quella di
Battaglini, quella di Biondi e poi quelle di tutti i miserabili prima di giungere
a casa mia, poi la mia casa e quella di Meiosetto, una porzione di quella di
don Nicola Longo e quella di Rubbo e di Boccaccino. Della casa di don Samuele
Perugini furono arse due stanze, delle casupole nella rua del Sergente se n’erano
salvate solo tre.
Si erano salvate anche le
casette di Cicciopruscino a Portanova, la casa di Michelangelo Barberini e di
Tomasetto Andrea, poi diverse casette dietro la Chiesa e quella di Ceracchio.
Delle diverse casette
dietro la congrega, si era salvata la Chiesa Madre e la casa di don Giuseppe
Golino, quella di Nicola Rubbo detto “Guappo”, la casa di Cappellina e anche
quella di Nicola Battista.
Nella casa di don
Daniele, si incendiarono i soli sotterranei ed, essendo le volte in pietra, il
fuoco non era passato al piano superiore”.
Tutto
molto eloquente: l’incendio non distrusse Pontelandolfo. Il pontelandolfese
Pistacchio ci dà una descrizione dello stato dei luoghi che è riscontrabile con
altre fonti che con altrettanta chiarezza ci dicono che il paese non venne
ridotto in polvere. Quanto poi il Pistacchio riferisce sulla “guida” dei
soldati che entrarono in Pontelandolfo e sui morti è altrettanto importante, se
non di più.
Infatti,
tra i soldati della Guardia Nazionale -
sui cui limiti ci siamo soffermati nelle pagine precedenti - vi era anche il pontelandolfese Simone
Rinaldi Piscitella il quale, stando alla testimonianza di Antonio Pistacchio,
era un uomo ambiguo e in contrasto con i suoi compaesani o con alcuni di loro.
Simone Rinaldi Piscitella il 7 agosto andò via da Pontelandolfo e si rifugiò a
Benevento. Quindi, ascoltiamo il Pistacchio:
“Tornò come guida della truppa devastatrice e
si vuole che molte case fossero incendiate dietro suo suggerimento. Si dice poi
che egli fece ammazzare, additandoli alle truppe, i due figli di Don Nicola Rinaldi.
Lui stesso poi ammazzò, per
vendicarsi, Francesco Rinaldi e Giuseppe Santopietro. Il primo, perché aveva
comprato il grano che gli era stato rubato il sette d’agosto ed il secondo
perché era entrato in casa sua e aveva rubato qualche oggetto.
Fece poi incendiare la
casa di Don Giacomo Lombardi e, successivamente, per questo fu odiato dal
medesimo. Sparlava, poi, continuamente contro Don Giacomo il figliastro che era
capo dei briganti. Tutto ciò lo portò alla morte”.
Il
destino di questo personaggio di Pontelandolfo era segnato: fu ucciso dai
briganti alla metà di ottobre. Lasciato in mezzo alla strada nei pressi del
mulino di Jacobelli, “i cani, la notte, gli sbranarono il volto”. Tuttavia, più
del destino di Simone Rinaldi Piscitella conta ciò che riferisce il Pistacchio
perché ci fa capire che tra i morti del 14 agosto 1861 ci furono omicidi
compiuti per vendetta tra gli stessi pontelandolfesi. Come si può capire, la
storia che raccontiamo è completamente diversa da quella vulgata creata ad arte per inventare e diffondere il mito
dell’eccidio o dello sterminio compiuto dai soldati. I documenti - la storia documentata, riscontrata,
accertata e pensata - ci dicono e
confermano che l’esercito italiano non fu mosso da volontà di sterminio. La
logica storica e perfino la cronologia degli eventi - si pensi al fatto che il telegramma di
Cialdini è del 10 agosto mentre la strage dei 41 soldati di Bracci è del giorno
dopo, 11 agosto - smentisce il calcolo
della rappresaglia e, in aggiunta, i singoli documenti confermano che i soldati
non compirono uno sterminio. I soldati entrarono in Pontelandolfo con
l’obiettivo di incendiare il paese ed evitare che la popolazione, essa stessa
ostaggio delle bande armate, desse sostegno ai briganti e alla propaganda
reazionaria di don Epifanio.
Ma,
come dimostrano i documenti, non vi fu volontà di sterminio, che sarebbe stata
controproducente e, al contrario, furono i soldati a spingere alla fuga nella
campagna la popolazione impaurita, smarrita, terrorizzata di Pontelandolfo che
visse la settimana di passione della sua storia.