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Pontelandolfo e i professionisti dell'anti-storia

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di Giancristiano Desiderio

Sui fatti drammatici di Pontelandolfo e di Casalduni del 1861 ormai gli studi storici ci hanno detto tutto con documentazione e rigore storiografico: i morti furono 13, la metà fu uccisa da un pontelandolfese per vendetta privata, i soldati italiani uccisi a sangue freddo da briganti e contadini furono 41, non ci fu nessuna rappresaglia. Coloro che continuano a sostenere la tesi infondata della rappresaglia e dell’eccidio devono, ormai, fare i conti non tanto con la storia quanto con la loro coscienza. Sono costoro i professionisti dell’anti-storia (un po’ come Leonardo Sciascia parlava dei professionisti dell’anti-mafia).

Non ci fu rappresaglia.
La mattina del 10 agosto 1861 il generale Cialdini inviò un telegramma al colonnello Negri ordinandogli di spostarsi a Pontelandolfo. Il generale non ordinò nessuna rappresaglia perché l’uccisione dei 41 soldati del tenente Bracci non era ancora avvenuta. Dunque, quel telegramma - che il colonnello Negri riceverà soltanto la sera del 13 agosto ritornando a Benevento -, non poteva in alcun modo riferirsi a fatti non accaduti e, invece, si riferiva alle imprese della banda di Cosimo Giordano che a Pontelandolfo in tre giorni, dal 7 al 9 agosto, aveva ucciso tre persone che non avevano alcuna colpa se non quella di non essere dalla parte di Giordano.

Nessun morto a Casalduni.
Il 12 agosto il generale Cialdini, dopo aver saputo del massacro dei 41 soldati, non avendo notizie di Negri incaricò il maggiore Melegari di portarsi a Casalduni e a Pontelandolfo per porre fine a una situazione diventata critica. Tuttavia, neanche i soldati di Melegari compirono una rappresaglia: infatti, non uccisero nessuno e una rappresaglia dove non si uccide nessuno è proprio una ben strana rappresaglia. I soldati giunsero all’alba a Casalduni e trovarono il paese disabitato. Tutti si erano rifugiati sulla collina e attendevano.

Due agguati.
L’esercito italiano subì tra Casalduni e Pontelandolfo due agguati. Il primo riuscì, il secondo fallì per puro caso. Il primo fu compiuto l’11 agosto e, dopo la cattura, 41 soldati furono uccisi dalla banda di Angelo Pica per ordine del sindaco di Casalduni, Luigi Orsini: questo è il vero eccidio, la vera strage di massa di quei giorni compiuta nel Sannio della quale, però, non si parla. Il secondo agguato fu studiato a tavolino sulla base dell’esperienza del primo: il paese di Casalduni fu fatto trovare disabitato proprio per questo motivo. Infatti, quando i soldati di Melegari spostandosi da Casalduni a Pontelandolfo si sarebbero trovati nel mezzo, proprio come i soldati di Bracci, la trappola sarebbe scattata. Giordano lo scrive a chiare lettere. Ma la trappola non scattò perché la banda sapeva dell’arrivo dei soldati di Melegari ma non dell’arrivo, dalla parte opposta, dei soldati di Negri, il quale aveva finalmente ricevuto il telegramma di Cialdini con quattro giorni di ritardo. Si creò così in modo del tutto casuale una sorpresa nella sorpresa.

I soldati sfollarono Pontelandolfo.
I primi soldati che entrarono in Pontelandolfo furono quelli della Guardia Nazionale: gli stessi soldati che i pontelandolfesi cacciarono via nei primi giorni di agosto. Erano guidati dal sannita Giuseppe De Marco e avevano un compito preciso: far scappare gli abitanti, che infatti scapparono via, per metterli in salvo. I tredici morti furono la conseguenza di due fattori: l’incendio delle case (non tutte) in cui c’erano anziani che non riuscirono o non vollero scappare e le vendette private del pontelandolfese Simone Rinaldi Piscitella.
Questi, in estrema sintesi, sono i fatti di Pontelandolfo e di Casalduni che in modo più disteso, con particolari, con documenti, illustro nel libro Pontelandolfo 1861. Tutta un’altra storia (Rubbettino) giunto in poche settimane alla seconda edizione. La storia che racconto, spiego e documento è completamente diversa dal mito che è stato costruito e divulgato ad arte negli ultimi vent’anni ma che affonda le radici all’inizio degli anni Settanta. La storia che racconto, però, non è diversa dalle ricostruzioni degli studi storiografici seri, ben presenti nella tradizione degli storici sanniti, e nella stessa memoria di Pontelandolfo. A questa tradizione mancava un testo completo che mettesse insieme tutti i punti, sconfessasse le mitologie e le propagande, e ricostruisse gli avvenimenti storicizzando documenti, fatti, testimonianze, memorie. E’ quanto ho fatto con passione e con ragione nella consapevolezza di pagare un debito alla mia stessa storia di italiano e nel rispetto di tutti i morti di un dramma che meritano di riposare in pace e non essere usati per coprire o alimentare sentimenti di odio che hanno la loro origine non nel passato ma nell’attuale cattiva coscienza di chi li pratica.

Francesco Perfetti, uno dei maggiori storici italiani, si è espresso così: “Probabilmente il saggio di Giancristiano Desiderio, per il fatto di demolire un mito della polemica antiunitaria, provocherà in taluni irritazione, ma è un esempio di come la storia dovrebbe essere davvero scritta. Senza cedere alla dittatura delle passioni di parte e al gusto dello scandalismo”. Un giudizio che da una parte mi fa arrossire e dall’altra mi gratifica perché mi conferma che il lavoro non è mai vano. Antonio Carioti, invece, giornalista del Corriere della Sera ed egli stesso aduso al rigore della storiografia, scrivendo del mio libro proprio sul quotidiano di via Solferino e considerando le mitologie create ad arte ha osservato: “Documenti contro propaganda: senza nessuna intenzione di sminuire la tragedia che fu la lotta al brigantaggio, Desiderio sfata una leggenda nera durata troppo a lungo”. Il lettore, mosso da buone intenzioni, ha tutti gli strumenti necessari per conoscere e per capire secondo l’autonomia del giudizio, senza cedere alle leggende e ai livori dei professionisti dell’anti-storia.



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