di Antonio Medici
La
comune e civile convivenza è scossa da dispute su temi sensibili. I
nervi si scoprono non appena ci si addentra in discussioni sulla fede, l’identità,
le ideologie, le credenze, le tradizioni, l'etica, gli orientamenti sessuali,
il calcio, la zeppola. Sì, la
zeppola, quella cosiddetta di San Giuseppe. Nemmeno inizia marzo che la fervida
devozione, peraltro pigra durante il resto dell'anno, induce a omaggiare
generosamente il Santo con il consumo di milioni - non abbiamo statistiche ma c'è da scommettere
si parli di cifre a sei zeri - di
pasticcini a Lui intitolati. Ogni anno si perpetua in ogni pasticceria, sui
social (manco a dirlo), nelle case la polemica, a tratti aspra, sulla vexata quaestio della cottura della
prelibata dolcezza: al forno o fritta.
Talebani
della zeppola al forno, sostenuti da truppe di vegetariani, vegani, salutisti,
con disciplina, fierezza e orgoglio tipici dei crociati votati al sacrifizio in
nome di dio, sono avanzati nei territori mal difesi dalle sparpagliate,
disorganizzate, acefale armate di epicurei, gaudenti, mezzi ubriachi armati di
innocue fionde caricate a pallottole fritte morbide di crema e amarena.
Inutile dire che la bellicosità dei “fornaioli”,
chiamiamoli così, ha determinato un arretramento significativo, sin quasi alla
soglia d'estinzione, dei “frittaioli”. Basti osservare le guantiere nei banchi
delle pasticcerie per farsene un'idea. Le zeppole fritte, oramai, si consumano
di nascosto, in segreto, nel corso di riunioni carbonare di resistenti
peccatori.
Eppure,
la zeppola è fritta. Non esiste la zeppola al forno. Al forno si cuoce il
bigné.
Il racconto popolare, animato dal ricordo di un passato a
base di zeppole fritte dai nonni e dai bisnonni, conviene su una tradizione di
cottura in olio bollente. Una patina untuosa di politically correct, però, è aspersa sul ricordo, sicché la
narrazione collettiva, per una volta, quella sbagliata, controcorrente, assume
toni di rassegnato disprezzo per l'antica, depravata e rozza usanza, oggi
soppiantanta da una sagace opzione fornaiola. Insopportabili toni di primazia, saccenteria,
supponenza, cui sono adusi i fornaioli, ci hanno indotto ad approfondire il
tema con un piccolo studio.
Nel
1837 a Napoli veniva pubblicato il testo “Cucina teorico – pratica” del Duca di
Buonvicino, Ippolito Cavalcanti. Vi si leggeva, tra
l'altro: “Per fare le zeppole, piatto di rubrica in Napoli ... farai ... la
pasta bugné. Fatta questa pasta la porrai sulla tavola di marmo, o sul pancone
verniciato d’oglio e rimenerai la pasta, della stessa ne farai tanti
tortanetti, non molto piccoli, e li friggerai con strutto bollentissimo, potrai
ancora con oglio; appena fatta una piccola crosta li rivolterai, e con un ferro
puntato espressamente o con un puntuto di legno li pungicherai dovendo vuotarsi
così ed allora le zeppole saranno ottime...”
Ancor prima del Cavalcanti, nel 1793, Vincenzo Corrado nel suo trattato “Il cuoco galante”
scriveva: “Fatta morbida questa pasta (la pasta bigné, di cui il Corrado
fornisce una dettagliatissima ricetta) si friggerà in bocconi, o pure
paffata per siringa, avvertendo di non far troppo riscaldare lo strutto...”.
Insomma
a Napoli la pasta bigné si frigge da tre secoli per farne zeppole.
Resta aperta la questione etimologica relativa alla
parola zeppola, che mai ricorre nei ricettari a proposito della pasta bigné
cotta al forno. Nel dizionario Treccani il termine zeppola viene illustrato
come “legno o metallo usato come cuneo”. Orbene, rileggendo le
indicazioni del Cavalcanti si noterà come egli inviti a far uso di un “puntuto
di legno” per pungere la pasta bigné durante la frittura, al fine di farla
vuotare e far in modo che le zeppole risultino ottime. Non sarebbe astruso,
dunque, ritenere che l'arnese (zeppola) di legno impiegato per la cottura e
l'ottenimento di un risultato squisito abbia dato nome alla preparazione.
E
con una puntuta zeppola andrebbero puniti i “fornaioli”, predatori di libertà e
bontà.