di Alessandro Liverini
La
edizione del “Catasto dell’Università del Castello di Campagnano in Provincia
di Terra di Lavoro - Anno MDCCXLIV” e del “Libro del Catasto di tutto il
tenimento di Squille”- trascritti e curati dal professore Pasquale Cusano -
costituisce una fertile occasione per ragionare sulle connessioni esistenti tra
il regno di Carlo III di Borbone (limitatamente alla fase di emancipazione
dalla corona spagnola coincidente con la sostituzione dei consiglieri spagnoli,
il Conte di Santisteban e il Marchese di Montealegre, con il consigliere
toscano Bernardo Tanucci) ed il “decennio francese”. Dunque, delle connessioni
tra la istituzione del catasto onciario (ordinata con dispaccio del 4 ottobre
1740 ed eseguita con prammatica del 17 marzo 1741) e la abolizione del sistema
feudale (disposta con legge del 2 agosto 1806 ed eseguita con ulteriori
disposizioni per la liquidazione degli usi civici e per la divisione dei demani
comunali).
Secondo
l’impostazione storiografica dominante il così detto “decennio francese” (che
va dal 14 gennaio 1806 - allorquando Giuseppe Bonaparte, fratello di Napoleone,
diventa re di Napoli - al 20 maggio 1815 - allorquando, con la stipula di
Trattato di Casalanza successiva alle sconfitte di Occhiobello e Tolentino, i
Borbone tornarono al potere ed al quale si è soliti addizionare la brevissima
esperienza della repubblica partenopea del 1799) è da considerarsi per il
meridione d’Italia, non soltanto un periodo di sostanziale modernizzazione
politico-istituzionale e socio-economica, ma una fase di radicale mutamento, di
discontinuità o, come si dice in gergo, di «frattura storica», di «saltum». E
si è soliti individuare nella abolizione della feudalità (o, come spesso si
sente dire, nella «eversione della feudalità») il fattore cardinale della svolta.
Non
è proprio così. In effetti, se è vero che l’abolizione della feudalità produsse
una importantissima redistribuzione fondiaria, tale da costituire la radice
storica dei futuri assetti proprietari in Campania, è altrettanto vero che la
stessa non determinò né il superamento del latifondismo, né la modifica dei
rapporti di forza socio-economici. Gli ex feudatari continuarono a controllare
i fattori produttivi. Non è per mero caso che di lì a poco si crearono le
condizioni per il ritorno al potere dei Borbone.
Le
prime isolate esperienze di innovazione produttiva e di imprenditorialità
privata, nel meridione italiano, sono abbastanza distanti dal decennio francese
e sono tutte riconducibili al protagonismo individuale, il quale, peraltro,
innervandosi nel flusso delle idee liberali, e combinando la disponibilità di
nuove tecnologie con le risorse naturali territoriali, rappresentò uno dei
principali fattori genetici della borghesia nazionale e, dunque, della nascita
dello stato italiano.
Ne
è esempio evidentissimo - nelle nostre terre - la figura di Achille Jacobelli;
per tanto tempo obliata dalla storiografia e, addirittura, calunniata dalla
vulgata e solo di recente riabilitata dallo studioso sanlupese Ugo Simeone (con
l’opera “Achille Jacobelli. Il cavaliere. Un personaggio controverso dell’alta
borghesia risorgimentale tra Sannio e Molise”) e, da ultimo, seppur con
riferimento ai soli fatti di Pontelandolfo, dal giornalista e scrittore
Giancristiano Desiderio (con l’opera “Pontelandofo 1861. Tutta un’altra
storia”). Mi riferisco, segnatamente, e tra le altre numerose opere, alla vera
e propria ri-fondazione della città di Telese, attraverso la valorizzazione
produttiva delle acque (con la ristrutturazione dei mulini e la costruzione di
una segheria idraulica), la edificazione di uno stabilimento termale (le così
dette Antiche terme Jacobelli), la facilitazione (mercé la valorizzazione della
conoscenza personale di re Ferdinando II) nella costruzione dello stabilimento
termale provinciale (le odierne Terme di Telese), la costruzione di una rete
stradale locale e la ristrutturazione dei principali edifici della frazione
solopachese, la progettazione (poi mai eseguita) di un innovativo sistema
idraulico di irrigazione. Tutto ciò fu realizzato a valle di una preliminare -
ma esiziale - operazione edilizia: la costruzione del ponte sul Calore al
Torello di Melizzano, così da deviare i traffici commerciali (passanti per la
strada consolare sannitica e congiungenti Napoli con Campobasso e poi Termoli)
verso la Valle telesina e Telese, bypassando il tratto pedemontano passante per
Solopaca.
Così
svalutata la portata innovatrice dell’abolizione della feudalità sul terreno
socio-economico, essa può essere più correttamente interpretata come momento di
continuazione del processo di modernizzazione politico-istituzionale del regno
di Napoli avviato, appunto, nel XVIII secolo e, segnatamente, negli anni di
Carlo III e di Bernardo Tanucci, i quali, peraltro, si avvalsero del rinnovato
clima culturale e del favore di una giovane classe di intellettuali e giuristi.
Rilevo, incidentalmente, che la riabilitazione storiografica di Carlo III di
Borbone risale a Benedetto Croce, il quale, in una recensione dell’opera “Il
regno di Napoli al tempo di Carlo di Borbone” pubblicata dallo storico
Michelangelo Schipa nel 1904 (recensione apparsa su “La critica” del medesimo
anno), sostenne - richiamando il giudizio politico di Pietro Colletta - che
Carlo III fosse “il primo Borbone di Napoli, non borbonico”. Al giudizio storiografico
crociano ha aderito, più di recente, Giuseppe Galasso, affermando che il regime
carolino ha segnato l’inizio della “ora più bella della storia di Napoli”.
Se
è vero, allora, che il catasto onciario rappresentò sul terreno del mutamento
dei rapporti di forza politici e socio-economici una “rivoluzione mancata”, è
altrettanto vero che esso rappresentò uno dei primi atti con i quali Carlo III
intese avviare il processo di costruzione di uno stato moderno. Il sistema
feudale fu conservato dalla istituzione del catasto onciario, ma fu
funzionalizzato alla determinazione di un assetto di potere centrale. La
conoscenza capillare del territorio e dell’esatta collocazione e consistenza
dei compendi proprietari dei baroni e della chiesa costituì il necessario antefatto
della politica di recupero delle terre feudali (e dunque di progressivo
assottigliamento del pesa specifico dei feudatari) compiuta qualche decennio
dopo anche grazie al contributo di giuristi come Giacinto Dragonetti, che
sostenne la natura pubblicistica dell’origine dei feudi e, quindi, la
superiorità del potere statuale monarchico sui particolarismi baronali.
Costituì, inoltre, il presupposto per l’avvio del processo di laicizzazione
dello stato. Si pensi al “Trattato di accomodamento” del 1741, con il quale
Carlo III riuscì ad imporre la tassazione dei beni privati della vastissima
classe clericale.
La
stessa cosa avevano provato a fare Alfonso e Ferrante d’Aragona nella metà del
XV secolo - anche in quel caso con la istituzione di un catasto, la
ristrutturazione del sistema fiscale e la politica di recupero delle terre
baronali - dovendosi successivamente scontrare con una violenta rivolta
baronale (la congiura dei baroni del 1485) e con una fase di rifeudalizzazione
avvenuta nel meridione d’Italia nel XVI secolo, allorquando, anche grazie allo
sviluppo dei commerci, il ricco ceto mercantile investì il denaro nell’acquisto
di feudi per assimilarsi all’aristocrazia feudale.
In
definitiva, la istituzione del catasto onciario ha innescato - sul terreno
politico-istituzionale - una innovazione più radicale di quella prodotta - sul
terreno socio-economico - dalla eversione della feudalità. Il processo storico
di modernizzazione istituzionale e di laicizzazione del sistema socio-politico
italiano - compiuto con la nascita di uno stato nazionale liberale e passante
per la stagione risorgimentale - affonda le sue radici anche nel meridione
italiano, ove il decennio francese e l’abolizione della feudalità più che
rappresentare un evento fondativo, originario, epocale in discontinuità con il
passato, va interpretato come fase di rivitalizzazione di un percorso avviato
più di mezzo secolo prima.