di Giancristiano Desiderio
Sancti Benedicti.
Abbazia
benedettina di San Salvatore telesino. Arrivo per primo e parcheggio. Un minuto
dopo mi raggiunge con il telefonino l’abate Medici.
“Dove sei?”
“Davanti l’ingresso
dell’Abbazia”
“Sto arrivando” e
chiude.
Poco prima avevo
scritto al nuovo adepto Liverini: “L’abbate Desiderio è arrivato”. Poco dopo
siamo tutti e tre a tavola nell’Abbazia alle spalle del santissimo salvatore,
lì dove un tempo i benedettini con la loro regola salvarono il mondo intero. Quella
Regola è ancora valida oggi con una piccola modifica: cogita et labora.
Arriva il
cellario, addetto anche alla cucina, e ci informa sulle virtù del cuoco. In
poco tempo ecco lo struppolo, un
delicato prosciutto crudo, Aglianico della terra di Torrecuso e poco dopo una
fiorentina per tre. Inizia così il nuovo rito: le cene del drago.
La cena funge da
riunione di redazione per una redazione che non c’è. Quasi una sorta di cena
dei cretini. Questa volta, però, c’è anche un nuovo progetto: una casa
editrice. Non perdo tempo. Mentre l’abate Medici consulta per deformazione il
menù, mostro subito un altro menù: le prove delle copertine delle prime tre
collane. Dal menù dell’Abbazia salta fuori l’immagine di un monaco e osservo: “Se
rinasco mi faccio monaco”. Medici dubita: “Perché?”. “Perché mi sottopongo ad
una regola di vita e non devo fare null’altro”. Liverini, che ha un fare
circospetto, nota che mancherebbe la vita erotico-affettiva.
“Ne sei certo?”.
Sorride, scettico.
“No”.
Appunto. I monaci, anche se ritirati dal
secolo, sono nel mondo fuori dal mondo. A volte ho l’impressione che siano
loro, i monaci e i trascendenti, più dentro al mondo di quanto non lo siano i mondani
e i terreni. E poi non c’è solo l’amore per la donna ma l’amore per Socrate,
Ovidio, San Tommaso d’Aquino e una vita senza amore - facendo la parafrasi della chiusa dell’Apologia - non è degna di essere vissuta. La vita è il
tentativo senza sosta di moralizzare l’amore.
Le cene del drago
sono così: il convivio mescola sacro e profano perché la vita è santa e
profana, cristiana e pagana e questa sua ambiguità di fondo la rende insieme
inquieta e abitabile. Sia Antonio sia Alessandro sono entusiasti del progetto
della casa editrice e si sentono già in un opificio di scienza e inevitabile
saccenteria. Lo illustro alla meno peggio tratteggiando un profilo e individuo
i punti deboli. Pronti ci sono già diversi titoli. Si tratta di capire solo
quando dare tutto in pasto al drago, come fosse il coccodrillo del Maschio
Angioino.
Mentre i sancti benedicti si rigirano tra le mani
le copertine mi viene in mente la e-mail che mi ha inviato Paolo D’Angelo per
ricordarmi che il 31 sarò a Roma Tre nell’aula che porta il nome di Valerio
Verra per la giornata di studi in onore di Paolo Bonetti, recentemente
scomparso. Ho scelto un tema insolito e D’Angelo, studioso dell’Estetica di Croce, è interessato: “Sono
curioso di sentirti”. Anche lì è in ballo una cena e un drago perché Paolo
Bonetti, che aveva una conoscenza profonda del pensiero di Croce a tal punto da
toccare gli zoccoli duri della storia e della vita nella loro ambivalenza santa
e demoniaca, era né più né meno che un drago. Così mi son ricordato di una cena
romana di molti anni fa che facemmo con lui, con Corrado Ocone - altro monaco benedettino sceso dalle alture
nebbiose di Morcone - e con due ragazze senza nome e ho intitolato il discorsetto che terrò agli amici all’università: “A cena con
Bonetti”.
Paolo mi aveva sentito parlare alla Luiss in un convegno proprio su
Croce. Parlai senza preoccupazioni di second’ordine - del tipo accademico, per intenderci - e dissi pane al pane e vino al vino ossia che
si è soliti andare a cercare il liberalismo di Croce lì dove è impossibile
trovarlo: in un congegno istituzionale o in una dottrina dei diritti. I
professori, soprattutto quelli un po’ duri di comprendonio ma proprio per
questo accigliati, son sempre lì a fare le pulci e a scoprire anomalie o
contraddizioni. In realtà, stanno solo cercando nel posto sbagliato. Perché se
si vuole trovare la radice del liberalismo e ancor prima del concetto della
libertà in Croce bisogna affrontare la questione del giudizio e così capire che
per Croce la conoscenza è solo e soltanto giudizio storico e da qui ne deriva la
questione capitale che il potere non può che essere giudizioso quindi limitato
altrimenti si sfocia sempre nell’illegittimità e nell’abuso in tutte le sue
forme (assolutismo, autoritarismo, fascismo, comunismo). L’ho ripetuto anche
ieri al museo civico di Santa Maria Capua Vetere parlando di Carlo Poerio e del
suo partito moderato napoletano. Moderato? Moderato non significa democristiano
ma potere limitato e impossibilità
che il potere possa tutto, che salvi, che redima, che liberi. Bonetti - che ogni volta che lo nomino mi fa venire
in mente subito la canzone di Lucio Dalla Disperato
erotico stomp “a Berlino ci son stato con Bonetti” - aveva colto benissimo questa specificità del
liberalismo di Croce e così, anche grazie alle sue esperienze politiche (fu
consigliere di Giovanni Spadolini) sapeva che prima di una dottrina dei diritti
è necessaria la “teoria della libertà” e che il liberalismo sorge su un fondo
machiavelliano di realismo politico proprio perché smaschera il potere e lo
limita e se così non fosse soggiacerebbe ai sofismi del potere.
Mentre i miei
amici mangiano, bevono e mi parlano, rispondo loro ma mi prende una fottuta
nostalgia della conversazione di Bonetti che apprezzava il mio modo
antiaccademico di proporre Croce che era antiaccademico da cima a fondo:
parlava, Bonetti, con calma, in modo rotondo, girava intorno alla cosa per poi squadernarla. Quella sera a
cena a Roma c’era a pochi passi sul quel marciapiede, non ricordo più in quale
quartiere - a Roma si mangia quasi
sempre per strada - il giudice
Imposimato. Si fermò. Lo conoscevo da tempo, fin dai tempi del liceo quando
venne per una conferenza, e parlammo. Intervenne anche Bonetti: “Giudice, oggi
il maggior problema italiano è proprio la giustizia e un giustizialismo che è
entrato nella testa degli italiani che credono nella purificazione del potere e
in un potere santo ed efficiente non più corrotto e non si avvedono che proprio
così corrompono il potere ed essi stessi ne abusano ad esso soggiacendo”. Il
magistrato, che aveva ai piedi delle scarpe sportive e indossava un vestito
classico, gli diede ragione, annuì. Camminava stancamente. Ci salutammo. Dopo
poco sarebbe giunta la notizia della sua morte.
Strani ricordi mi
salgono agli occhi, come se vedessi volti e scene, alle orecchie, come se
sentissi voci di dentro e di fuori, alla mente che tenendo fede a sé stessa un
po’ misura e un po’ mente. Ma i ricordi di amici e di nemici, di dialoghi e di
conversazioni, di fedi e di illusioni ruotano sempre intorno ad un discorso
intorno al potere e alla conoscenza che sono le due forme umane con cui si crea
e si distrugge la vita. Ci vorrebbero dei draghi per tentare di rimettere
insieme un discorso di senso compiuto intorno all’inutile potere italiano che
si presenta sempre nei suoi vari osannanti propagandisti di turno, che siano
fascisti o antifascisti, comunisti o anticomunisti, niente o antiniente, come la
soluzione di tutto che non serve a niente. Ecco perché l’Italia muore di
propaganda.
Ci vuole la
Regola. La casa editrice ce l'ha nel rivisistato motto: cogita et labora. Magari riiusciamo nell'impresa.
Sancti benedicti