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Gloria eterna per gli esuli napoletani

giancristiano desiderio
Pubblicato da in Italia mia benché · 24 Maggio 2019
Tags: napoletanipiemontesiCavourborboni

di Luigi Ruscello

Ferdinando II di Borbone non nutriva molta simpatia per i giornalisti e gli altri letterati, tanto da definirli “pennaruli” e molti di essi furono costretti a trasferirsi da Napoli proprio nell’odiato Piemonte.

Bisogna chiarire però, in primo luogo, come ci ricorda la Audenino, che solo dopo il 1848 il Piemonte divenne luogo privilegiato d’accoglienza per profughi e rifugiati. In precedenza, invece, era terra di partenza per l’esilio.

In secondo luogo, il numero di esuli napoletani fu una minoranza in quanto, secondo la Rao, i circa 600 superstiti della repubblica napoletana del 1799, si rifugiarono in Francia e solo nel decennio preunitario Torino e Genova si sostituirono lentamente a Londra e a Parigi. Le condizioni di vita, peraltro, non erano affatto confortevoli, come testimoniato dalle lettere degli esuli. Al riguardo, sono emblematiche quelle dello Spaventa pubblicate da Benedetto Croce.

Il fenomeno, quindi, fu tipico del Lombardo-Veneto, in cui, subito dopo l’armistizio Salasco, dell’agosto 1848, raggiunse dimensioni enormi. Basti pensare che Milano-città aveva una popolazione di circa 138mila abitanti e, secondo Antonio Monti, furono addirittura 75mila i milanesi che emigrarono in Piemonte.

Come quasi tutti i fatti dell’epoca, tuttavia, è quasi impossibile quantificare in modo preciso l’entità degli emigrati/immigrati. Infatti, il numero dei soli lombardo-veneti che si trasferirono in Piemonte, e in misura molto minore in Svizzera e nel resto d’Europa, va dai circa 100mila, indicati sia da Giovanni Cadolini, sia da Costanza d’Azeglio, ai citati 75mila di Antonio Monti, per scendere ai 36mila di Petitti e 30mila di Bianchi. Una buona parte di essi, però, ripartì successivamente in seguito all’amnistia austriaca dell’agosto 1849.

Comunque, che fosse un fenomeno prettamente settentrionale lo dimostra il fatto che nel 1862, come ci ricorda la De Fort, su un totale di 6.827 emigrati che risultavano sussidiati, circa 5.000 erano sudditi veneti e un migliaio sudditi romani.

L’enormità del fenomeno, tuttavia, fece sì che a Torino, nel 1848, su iniziativa del sacerdote Carlo Cameroni, fu dapprima lanciato un manifesto per l’unificazione degli emigrati italiani, e, poi, un comitato privato per l’assistenza agli emigrati politici inabili, studenti ed ex ufficiali dell’esercito austriaco.

Di fronte ad una vera e propria invasione, anche il Regno dovette intervenire e da qui due leggi del dicembre 1848. Una per l’ordine pubblico, con la quale non si fece altro che rielaborare le norme già in vigore, portando da uno a tre i giorni in cui si doveva provare di essere idonei al soggiorno. Con la seconda, si stanziò un fondo per l’assistenza agli esuli di 200mila lire, integrato nel 1849 a 300mila, e istituì il “Comitato Centrale per l’emigrazione” presieduto dal ministro dell’Interno Rattazzi, di cui il Cameroni era il factotum e per questo gli fu attribuito il soprannome di “papà dei profughi”.

La composizione del Comitato, però, a comprova che fosse dedicato in maggior misura al Settentrione, prevedeva tre consiglieri municipali e sei fra le più ragguardevoli persone dell’emigrazione Lombardo-Veneta.

Non tutti, però, erano contenti di tale situazione, anzi, di tutt’altro avviso. Secondo le confidenze fatte nel novembre del 1850 da uno dei principali esponenti della destra conservatrice, il conte Giacinto Provana di Collegno, all’economista William Nassau Senior: «Il Piemonte era divenuto lo scolo in cui confluiva tutto il mascalzonismo d’Italia». E non mancavano, naturalmente, forme di razzismo, come denunciato da Vittorio Imbriani nell’opera “Auscultazione” il cui protagonista, un giovane medico napoletano, oltre a lamentare la pochezza del sussidio: “si trattava figuriamoci di una lira al giorno”, manifestava “l'odio e la gelosia de' fisici piemontesi, i quali riguardavano come nemici quanti non erano nati sulle sponde della Dora”. Tale discriminazione, fatte le debite eccezioni, come, ad esempio, Scialoja e Mancini, colpì eminenti personaggi e, tra gli altri, come ci ricorda la Cicalese, lo stesso De Sanctis il quale, pur esule dal 1853 a Torino, dovette attendere il 1855 per ottenere una cattedra, ma a Zurigo.
 



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