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Gramsci juventino

giancristiano desiderio
Pubblicato da in Povera e nuda · 27 Febbraio 2019
Tags: GramsciJuventus

di Giancristiano Desiderio

Antonio Gramsci teneva per la Juventus. Giorgio Fabbre ne parlò nel 1988 su L’Unità citando due lettere che Gramsci nel 1932 scrisse dal carcere all’amico Piero Sraffa e che furono pubblicate su Lancillotto e Nausica, rivista di storia dello sport. Fabbre, però, non era proprio così sicuro della fede juventina di Gramsci e si ripromise di vedere le lettere nella loro versione originale. Il dubbio gli fu cavato da Federico Frascani che il 18 dicembre 1988, in un articolo in prima pagina su Il Mattino  - è mia sana abitudine citare le fonti -  citò a sua volta un pezzo che Antonio Gramsci scrisse il 24 agosto 1918 su L’Avanti.

Federico Frascani, giornalista, scrittore, critico teatrale, mi è noto soprattutto per il libro Croce e il teatro che ebbe la prima edizione nel 1966 con Riccardo Ricciardi e che poi fu più volte ristampato in nuove versioni e tipi. Ma l’articolo in cui tolse i dubbi a Fabbre sulla fede juventina di Gramsci o, almeno e meglio, sulla simpatia del comunista per la squadra torinese che dal 1923 diventerà la squadra della principale famiglia capitalista italiana, gli Agnelli, l’ho letto in un libro raccolto su di una bancarella, perché le cose migliori si trovano sulle bancarelle, che s’intitola: Eduardo, Totò, Maradona. Da giovane Antonio Gramsci, sardo, visse lungamente a Torino e, dunque, la conoscenza della squadra juventina non gli era per forza di cose ignota. Il calcio, però, gli dovette riuscire anche interessante e simpatico perché lo usò come metafora della vita che lotta e rispetta le regole mentre la partita di scopone, dove spesso vi erano trucchi e carte segnate gli dovette apparire come una sorta di arte truffaldina da “superare” o mantenere alla larga. Sarà. Fatto sta che sul quotidiano socialista Gramsci curava una rubrica: “Sotto la Mole” e nella data indicata così scrisse.

“Osservate una partita di foot-ball: essa è un modello della società individualistica: vi si esercita l’iniziativa, ma essa è definita dalla legge; le personalità si distinguono gerarchicamente, ma la distinzione avviene non per carriera, ma per capacità specifica, ci sono il movimento, la gara, la lotta, ma essi sono regolati da una legge non scritta, che si chiama ‘lealtà’, e viene continuamente ricordata dalla presenza dell’arbitro”.

Certamente, qui Gramsci ci dà un’immagine vera e al contempo idilliaca del calcio. In particolare, il riferimento alla lealtà ci induce al sorriso, sia per i molti episodi di gioco in cui proprio la lealtà non sembra essere la qualità principe dei giocatori di oggi, sia perché  - senza cadere in un frusto pregiudizio anti-juventino -  i giocatori bianconeri, anche in tempi recentissimi, non hanno brillato per lealtà. Tuttavia, la nota calcistica di Gramsci coglie del calcio la natura dialettica quando dice che è movimento, gara, lotta nella quale le differenze  - le disuguaglianze -  son definite non dalla carriera bensì dalla capacità. Ma, juventino o meno che fu  - ma è chiaro che una certa simpatia per la squadra che osservò giocare a Torino dovette nutrirla -, Gramsci vide nel calcio il “modello della società individualistica” proprio per la presenza dell’arbitro e della regolamentazione della gara. Un modello di società che, com’è noto, per il comunista Gramsci andava “superato” con quella rivoluzione dalla quale sarebbe venuta al mondo la società del socialismo non più ipotetico e sognante ma reale e scientifico che altro non era che la dittatura degli intellettuali del Partito leninista-marxista sul proletariato. Purtroppo, Gramsci non fu juventino fino in fondo. Prevalse il comunista.

Se Gramsci avesse dato ascolto alla sua simpatia per la Juventus e il calcio avrebbe scoperto che proprio quella lotta non è superabile e una “partita di foot-ball” non è il modello della società individualistica, bensì è un modello cognitivo che mette in scacco o fuorigioco il delirio di onnipotenza e onniscienza del sinistro fenomeno totalitario e rivela in modo agonistico ed elegante la condizione umana.





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