di Giancristiano Desiderio
Ugo Gregoretti aveva l’aria svagata e stralunata ma
era tutta apparenza, in realtà era attento a tutto e nulla gli sfuggiva. Lo
incontrai a Roma, a casa sua, tanti anni fa, non ricordo neanche più perché. Mi
ritrovai in via delle Zoccolette, una viuzza a ridosso di Montecitorio, dove
abitava in una sorta di casa-studio. Forse, mi ci portò il mio amico Michele
Biscardi che gli voleva proporre qualcosa. Comunque sia, erano i giorni
immediatamente successivi alla vittoria di Silvio Berlusconi e di Forza Italia,
27 marzo 1994. Ricordo - soprattutto ora
che se n’è andato via all’età di 88 anni - che Gregoretti parlava dei nuovi deputati come
tanti marziani di Ennio Flaiano. In effetti, per lui era davvero gente venuta
da un altro pianeta e viveva quella calata di hyksos con disagio, certo,
ma anche con curiosità. “Questi mi sembrano un po’ tutti delle maschere di
Goldoni o dei personaggi delle sue commedie, sono comici e goffi ma avranno
anche qualcosa di buono” e mentre lo diceva, sprofondato in poltrona, io guardavo
dei grossi tomi in una libreria ed erano proprio le commedie di Carlo Goldoni.
Aveva, Ugo Gregoretti, una certa concezione teatrale della vita, nel senso più
popolare di quest’arte che cercò di introdurre, e forse ci riuscì, in modo
stabile a Benevento con l’esperienza di Città Spettacolo che iniziò proprio con
lui nel settembre del 1980, l’anno del terremoto. E sì, per certi versi fu un
terremoto.
La rassegna teatrale beneventana - perché in origine voleva essere proprio
questo - nacque quasi per caso. L’intuizione
originaria la si deve a Emilio Iarrusso, un politico, un giornalista, un uomo
di mondo, almeno a sentir lui, insomma, un personaggio che quando se ne uscì
con questa idea venne preso quasi per pazzo. Forse, più di quanto non gli
capitò quando subì addirittura un attentato
- fu sparato alle gambe - e quasi
se ne gloriava per essere diventato un importante bersaglio e in tanti andavano
a trovarlo in ospedale, al suo capezzale o, come diceva uno che non si sa se
sbagliava o sfotteva, al suo capezzolo. Alla fine dei suoi giorni Iarrusso si
mise a scrivere anche dei libri gialli, pubblicati da una casa editrice
napoletana, nei quali vi erano non poche scene di sesso e descrizioni
meticolose di erezioni prodigiose. Ognuno ha le sue fissazioni. Fatto sta - mi si perdoni la digressione - che la fissazione riuscita di Iarrusso fu
proprio Città Spettacolo e anche l’idea di rivolgersi a Ugo Gregoretti fu
felice. Così in quel settembre di trentanove anni fa, mentre Benevento era
senza sindaco - Ernesto Mazzoni si era
candidato alla Regione - e l’avvocato
Silvio Ferrara, vicesindaco, ne fece le veci, Iarrusso e Gregoretti inventarono
Città Spettacolo con uno spettacolo di Gabriele Lavia e Cochi Ponzoni - tutti andarono vedere Cochi, nessuno
conosceva Lavia che era, appunto, sconosciuto - su Ivan il Terribile.
A Ivan il Terribile subentrò come sindaco Nicola Di
Donato ma non era terribile e non durò molto, mentre chi gli successe ebbe
molto più successo: Antonio Pietrantonio. Il preside democristiano, forse più
democristiano che preside - ma i presidi
di un tempo avevano sempre qualcosa di democristiano, anche quando erano
comunisti - ebbe l’intelligenza di
accogliere l’esperienza di Ugo Gregoretti e, anzi, per tutto il decennio degli
anni Ottanta la rassegna gli fu affidata e si può dire che per i primi dieci
anni della sua vita Città Spettacolo sia stata in fondo la coppia
Gregoretti-Pietrantonio. Così, quando negli anni Novanta ci sarà come sindaco
Pasquale Viespoli, si avrà l’accortezza di avere un direttore artistico capace
di non far rimpiangere gli anni gregorettiani e la scelta cadrà su Maurizio
Costanzo e nascerà la coppia Costanzo-Viespoli. Credo di dire cosa abbastanza
vera e accettabile se dico che Città Spettacolo è stata questo quartetto di due
coppie: Gregoretti-Pietrantonio e Costanzo-Viespoli.
La particolarità di Gregoretti era semplice: viveva
Benevento. Per circa una ventina di giorni prendeva casa a Benevento - credo a San Marco ai Monti, casa con
annessa piscina - e seguiva da presso le
rassegne, le scene e i retroscena. Naturalmente, lo spettacolo non finiva mai
sulla scena e continuava nelle varie locande e bettole, perché Gregoretti,
alto, allampanato e segaligno, era pur uno a cui piaceva mangiare e bere e
stare in compagnia. Se così non fosse non si spiegherebbe il suo interesse né
per Pontelandolfo né per Foglianise e la sua popolarissima e ancestrale Festa
del grano. A Pontelandolfo la famiglia di Gregoretti fu proprietaria per un
cero periodo della famosa Torre e il regista
- ma anche attore, autore e perfino buffone - non perdonò mai alla madre di aver venduto
quei mattoni arroccati e testimoni della storia del “maledetto arciprete” don
Epifanio, come scriveva il Pistacchio fattosi cronista per paura e per
necessità. A Foglianise, invece, Gregoretti ci andò con le telecamere della
Rai - alla Rai venne assunto nel
lontanissimo 1953, altro mondo, altri hyksos - per
riprendere tutto delle spighe di grano, il loro colore, il calore, la loro
terra, la loro religione. E lì divenne amico di mezzo paese e anche dell’altra
metà e di un altro Ugo che a Foglianise era una specie di istituzione, quell’Ugo
Pedicini che era preside sì, e quindi anche democristiano con tendenze
socialisteggianti, ma soprattutto era musicista e della sua gente conosceva la
sofferenza e l’ironia e financo il tono musicale con cui portava avanti la
vita. Alla fine si finiva sempre come si finiva, a tavola con un bicchiere di
vino - qualcuno in più - e con le storie popolari raccontate dal vino
e dalle note.
La faccio breve dopo averla fatta un po’ lunga. Ugo
Gregoretti nel Sannio ha lasciato una traccia e qualcosa in più. La sua opera
merita di essere ripresa e riletta perché è un esempio di amore per la vita e
la cultura gustosa, persino al di là delle idee politiche che, del resto, sono
sempre quelle più cadenti. E’ giusto ricordarlo senza imbalsamarlo. Senza
retorica, non gli sarebbe piaciuto.