di Giancristiano Desiderio
Un anno fa iniziava la lunga estate calda di Paolo Di
Donato: arrestato, criminalizzato, affondato. Un anno dopo la Cassazione ha
cancellato tutto annullando i provvedimenti di cattura e detenzione ai
domiciliari: il “re dei profughi” non doveva essere arrestato. Tuttavia, ciò
che non doveva essere fatto è stato fatto e, si sa, nemmeno Dio può fare in
modo che non sia stato ciò che è accaduto. La giustizia ne è consapevole e
annulla gli atti ma i fatti, prodotti da quegli atti, restano. E fanno male. Il
tempo della vita non è quello della giustizia. Il senso della giustizia non è
quello della storia.
Il procuratore generale presso la Cassazione ha
chiesto l’annullamento: “Non vi erano i presupposti per emettere il
provvedimento cautelare”. Eppure, proprio quella cautela - ossia l’arresto - è stato usato senza tante cautele nei
confronti di Paolo Di Donato e dei centri di accoglienza in cui lavoravano 150 dipendenti
per circa 800 migranti. Un anno dopo, dopo che la Cassazione ha cassato la
legittimità dell’arresto, dopo che della prima accusa - associazione a delinquere - non c’è più nessuna traccia, dopo che nessun
rinvio a giudizio è stato ancora emesso, un anno dopo cosa resta? Niente. I
lavoratori non hanno più il lavoro. I centri di accoglienza sono stati chiusi.
I migranti, contro la loro stessa volontà, sono stati trasferiti in altri
centri. I grandi accusatori di Paolo Di Donato tacciono.
L’arresto di Paolo Di Donato fu un grande caso nazionale.
Si accesero le sirene e si accesero le telecamere. Fu fatta una gran bella
conferenza stampa e il “re dei migranti” fu indicato come una sorta di demonio o
un burattinaio capace di manovrare i burattini perfino all’interno della stessa
macchina statale. Da una parte vi era già stato il libro di Mario Giordano - uno dei suoi sulle sanguisughe, gli avvoltoi,
i coccodrilli - e dall’altra vi erano
state le accuse della Cgil beneventana -
in particolare, della segretaria Galdiero di cui ora si sono perse le tracce.
Qual era la colpa di Paolo Di Donato e dei suoi centri di accoglienza? Quello
di fornire allo Stato e al governo, tramite la prefettura di Benevento, una
soluzione praticabile per accogliere i migranti che lo stesso Stato, lo stesso
governo, la stessa prefettura non sapevano dove sistemare. La colpa, proprio la
colpa del “re dei profughi” era quella di essere capace, ma i reati? Boh! Tutto
ciò che sappiamo oggi, sulla base dello stesso lavoro dei giudici, è che non c’è
stata nessuna associazione a delinquere, è che Paolo Di Donato non doveva
essere arrestato, è che tutte le indagini
- tutte - potevano e dovevano
essere fatte senza ricorrere ai provvedimenti di custodia cautelare, è che le
garanzie non sono state garantite e oggi sia Paolo Di Donato sia il Sannio
pagano un prezzo altissimo alle ingiustizie della giustizia e ai repentini cambiamenti
politici senza Stato.
Mi chiedo: ma coloro che accusavano Paolo Di Donato e
il lavoro di accoglienza dei suoi centri cosa volevano? La domanda mi sembra
non solo legittima ma anche necessaria. Sì, perché, prendendo il caso della
Cgil beneventana, non si capisce quale sia stato lo scopo dell’accusa visto che
i risultati ottenuti sono stati nell’ordine: la perdita di 150 posti di lavoro;
il peggioramento delle condizioni dei migranti, la fine di un’opera di lavoro
che, come sanno tutti coloro che lavorano, costa sempre sacrifici, impegni,
lungimiranza; la confusione di un dibattito pubblico fatto all’insegna di
pregiudizi e ipocrisie. Se si guarda questa storia con un minimo di sincerità non
si può non notare che chi ne esce meglio di tutti è proprio Paolo Di Donato. Il
suo onore è ben salvo al di sopra di avvoltoi e pappagalli, ministri e
prefetti, sindacalisti e procuratori.
Il caso Di Donato, in
qualunque modo andrà a finire la scombinatissima e incivile vicenda giudiziaria,
può essere capito solo sul piano politico e morale. Fino a quando la politica - e tutto ciò che questo significa: governo,
ministero, prefettura, partito - ha
avuto bisogno dei centri di accoglienza, allora, Di Donato è andato bene;
quando le cose sono cambiate, allora, Di Donato non ha rappresentato più una
soluzione ma un problema del quale ci si è liberati senza andare per il
sottile. Il racconto da usare, prim’ancora che le inchieste giudiziarie, era
già pronto nella stessa definizione di “re dei profughi” e in quella vecchia
fotografia con la Ferrari. Quel racconto, però, non narra la storia di Paolo Di
Donato ma la falsa coscienza di chi per sue piccinerie ci crede.