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La città del vino e della retorica

giancristiano desiderio
Pubblicato da in Forche caudine · 1 Marzo 2019


di Giancristiano Desiderio

Non credeva alle sue orecchie. Quando gli hanno detto che il Sannio è Città europea del vino 2019 ma non ha ancora nulla  - nulla -  pronto, Bruno Vespa ha strabuzzato gli occhi. Poi ha detto due parole definitive. Eccole: “Mi pare, però, onestamente che la state valorizzando poco. Siete partiti molto tardi. Questo è un difetto del Meridione. Bisogna dirlo: arrivate sempre all’ultimo momento. Io questa cosa l’ho scoperta per caso. Eppure io nel mondo del vino ci sto. Siamo già a febbraio (in realtà marzo) ma l’anno inizia a gennaio. Queste cose si organizzano almeno due anni prima. Ci si muove in anticipo. C’è questa grazia di Dio: “Città europea del vino”. Vi rendete conto di che cos’è? Con quello che fa la Francia, che fa la Spagna e voi ancora state a chiedervi come potete valorizzarla. Bisogna muoversi. Se il Mezzogiorno vuole riscattarsi deve cominciare da se stesso”. Ora, fate una cosa: dite a Bruno Vespa che non capisce niente, parlategli del territorio e magari pure della filiera, e ditegli pure che non è un giornalista. Le chiacchiere, cari signori del vino fatto e sudato dagli altri, stanno a zero. Ma qui siamo a meno uno.
 
Oggi per Benevento e dintorni è stata una giornata importante. Mi correggo: poteva essere una giornata importante. Bruno Vespa non era di passaggio ma è venuto in occasione del conferimento della laurea honoris causa da parte dell’università del studi del Sannio a Riccardo Cotarella che  - come ha scritto sapendo molto bene ciò che scriveva Antonio Medici su queste “pagine” -  in fatto di uve, vini e vigneti è un dio e un demonio. Il riconoscimento a Cotarella, con un minimo di avvedutezza, poteva entrare a far parte della stessa Città del vino e poteva essere occasione di incontro, di scambio, di conoscenze. Invece, per dirla con Vespa: “Vi state ancora a chiedere come potete valorizzarla”. Insomma, anche la giornata per Cotarella è stata l’ennesima giornata sannita della retorica del territorio. Un’espressione insulsa che non significa niente, mentre è così bella e forte la parola Terra, terra mia che evoca la madre, il lavoro, la zappa.
 
Le cose che ha detto Vespa le ho dette e ridette tempo fa e le ha scritte Medici con dovizia di particolari  - vedi disegno di Paladino -  e le ha scritte anche Antonio Frascadore in un suo ottimo articolo che diceva che i cinque sindaci se la cantano e se la suonano. A me, però, hanno dato del provinciale. Figurarsi, come se non lo sapessero tutti che sono uomo di mondo e ho fatto tre anni di militare a Cuneo. Qualcuno ha perfino detto che abbiamo esagerato con le critiche e io non sarei neanche un giornalista. Rieccoci qui con il pallino delle definizioni e dei titoli. Se ne volete ve ne do quante ne volete delle prime e dei secondi ma avete ragione voi: è un problema definirmi e da un pezzo ho buttato la spugna anch’io e mi attengo all’unica regola seria della vita per misurare il valore di uomini, bestie e dèi (come diceva Ferdinand Ossendowski) ed è questa: che hai fatto?
 
Signori, dobbiamo essere seri: che cosa sia oggi, a quattordici giorni dalle idi di marzo, la Città europea del vino nessuno lo sa. C’è un riconoscimento ma sotto, come diceva Vanzina, niente. Vi sono solo fotografie, dichiarazioni, propositi che, come al solito non vanno oltre Sferracavallo mentre l’unica cosa certa è che tra venti giorni è primavera ma non c’è uno straccio di programma e la storia vera che conta  - il Sannio -  non è stata portata all’attenzione di nessuno. Questa storia della Città del vino, nata come una bella favola o una favola bella che ieri ti illuse o Ermione, è stata già trasformata in una carrozzina sulla quale un po’ tutti son saliti, chi per una cosa e chi per una cosetta, ma la carrozzina non è un carrozzone e, quindi, in tanti dovranno scendere ancor prima di esser saliti. Ho sentito parlare di incarichi, di organizzazioni, di uffici per comunicare ma la verità nuda e cruda è che i comunicatori non hanno un cazzo da comunicare. Ogni giorno c’è chi ne spara una: Ravello, Matera, Roma, Milano ma siamo sempre qua a cantare e suonare. Mentre il mondo vorrebbe sapere e potrebbe sapere chi fa il vino e come, con quali uve e cosa si può ancora fare con quell’uva. Ma per raccontare questa storia di lavoro ci vuole chi lavora e ha fatto qualcosa: gli operai, gli imprenditori, i contadini, i fattori, gli enologi, uomini e donne che vivono nella terra e devono conoscere altri uomini e altre donne che fanno e vendono vino.
 
Ci si abbuffa di retorica. Tanto che bisognerebbe cambiare il titolo così: La Città europea del vino e della retorica. C’è la retorica, come detto, del territorio. C’è la retorica dell’unione. C’è la retorica del fare squadra. Dai su, tutti insieme, facciamo squadra, siamo una squadra fortissimi. E ogni giorno si sente la litania “siamo Città europea del vino”. State attenti perché a furia di ripeterlo qualcuno potrebbe rivolgersi a don Ersilio che darebbe un unico consiglio: duca Alfonso Maria di Sant’Agata dei Fornai…
 
Ad oggi sono stati fatti solo pasticci: non ci si è dato un obiettivo serio, non ci si è dato un tempo, non ci si è affidati ad un’agenzia, non ci si è riconosciuti in un logo da far conoscere all’Italia, all’Europa e al mondo. Ci si è incartati, ci si è rivolti tardi, molto tardi a Mauro Felicori ma al momento non si sa se San Felicori c’è o non c’è e se c’è cosa fa. Si sono fatti pasticci persino con il disegno di Paladino e ci si è messi a disquisire sulle definizioni  - “è un logo”, “no, non è un logo” -  esprimendo quel tipico barocchismo e spagnolismo delle culture inconcludenti e inconsistenti mentre i giornalisti  - non tutti e non tutte -  facevano da megafono del nulla e da reggicoda senza avere il coraggio di fare giornalismo. Poi un bel giorno arriva un giornalista, che è anche un ottimo produttore di vino proprio con Riccardo Cotarella, e quasi come nella favoletta di Andersen dice ciò che tutti sanno e tutti vedono ma nessuno ha il coraggio di dire e di vedere.
 
Io questa terra  - terra, terra e Terra, non territorio -  la amo e le critiche che ho mosso con lungimiranza le ho avanzate per amore, solo per amore, come scriveva Pasquale Festa Campanile, ma che cazzo te lo dico a fare. Forse, molto forse si è ancora in tempo a combinare qualcosa di buono. Ma a una condizione: lasciate che a organizzarsi siano i produttori di vino, le aziende, gli imprenditori che sbaglieranno ma sanno pur fare e sanno fare perché hanno fatto sacrifici e hanno sbagliato in proprio. Sbagliando s’impara e ciò che dobbiamo imparare oggi è che bisogna farla finita una volta per sempre con la retorica del territorio e del fare squadra. Lavorate. E basta.




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