di Giancristiano Desiderio
Il pensiero esiste perché l’essere è mobile, se fosse
immobile - come una tomba marmorea
- non ci sarebbe nulla da pensare. Non
ci sarebbe nulla. L’essere immoto è una finzione spirituale e una funzione
intellettiva che, se non compresa e non ri-compresa nella ragione umana, ha la
capacità di stregare e incantare la mente che, tenendo fede alla sua voce,
mente. Ciò che dà da pensare è propriamente il divenire che, alla
maniera di Hegel e ancor più di Croce, non è l’essere astratto, estratto e
stecchito ma l’essere concreto, vitale e storico. Il principio di non
contraddizione - l’essere è - si esprime solo se può non-essere e a questo
non-essere che lo minaccia da ogni banda in ogni eternità si oppone
ribandendosi. Anche i filosofi puri o metafisici - in pratica, i professori di filosofia
-, che predicano l’identità immobile
dell’essere, non escludono il divenire e lo includono nell’essere come una
forma della sua eternità. “Ritornare a Parmenide” dice da sempre Emanuele
Severino, ma è un ritorno che tiene conto
- non potrebbe essere diversamente -
del divenire di Eraclito che è pensato come la follia dell’Occidente in
cui l’essere esce dal nulla e vi ritorna, contraddicendosi perché nulla viene
dal nulla e tutto viene dall’essere. Questo modo di intendere il divenire non
come la possibilità di essere bensì come la contraddizione di un essere non
inteso bene è di fatto ciò che è metafisica: la pretesa dell’esistenza di un
sapere che trascendendo la vita la domini. Ma il principio di non
contraddizione ha senso non sul piano dell’essere ma della vita. L’essere non
trema. La vita sì. E’ il tremore - il
tremuoto - che ci fa uomini, che ci fa
pensare.
Ogni filosofia è, in fondo, filosofia dello spirito
ossia il tentativo dell’uomo di comprendere la propria condizione con
l’intenzione di dimorare in una casa sicura dalla quale è stato scacciato il
male che non sarebbe tanto un orrore quanto un errore. La casa sicura è la casa
il cui sistema di sicurezza - la
conoscenza - ha debellato il male: il
divenire. Ma la casa dell’essere priva di divenire è la tomba (a parte che
anche il mausoleo diviene). Il divenire è senz’altro imprevedibile e
minaccioso. Tragico. Ma è insieme tanto il principio del male quanto il
principio del bene. L’idea di eliminare il divenire, il male, dichiarandolo o
un’illusione o una previsione equivale a rinchiudersi in una prigione con il
convincimento di essere sicuri e liberi. Non si può eliminare il principio del
male senza eliminare anche il principio del bene. La metafisica è una forma di
risentimento verso la vita. L’errore vero è proprio quello di credere che
l’orrore sia una contraddizione logica. Così si ottiene un risultato opposto a
quello cercato: la verità diventa una forma di errore e una pratica di orrore.
Non rimane che accettare il divenire come ciò che dà da pensare e da vivere
attraverso il male. La libertà può germogliare quando c’è un’accettazione della
fatalità.
Ci sono due forme di divenire. Una è quella di
Eraclito, l’altra di Cratilo. Per Eraclito ci possiamo bagnare nel fiume del
divenire una sola volta. La seconda volta, infatti, è già un altro fiume perché
le acque scorrono sempre. Per Cratilo non possiamo bagnarci nemmeno una volta
nel fiume del divenire che è talmente liquido da essere inafferrabile. La
differenza che c’è tra il fiume di Eraclito e il fiume di Cratilo è che al
primo riconosciamo l’essere del divenire mentre al secondo solo e soltanto il
divenire. Ma il divenire che è puro e solo divenire non è nemmeno divenire ma
una inconsistenza, una vacuità, una ineffabilità. A ben vedere è lo stesso
stregamento del nostro intelletto che abbiamo già visto all’opera sul versante
dell’identità dell’essere sempre uguale a se stessa: una forma di vacanza del
pensiero con cui si forma un problema metafisico. Il filosofo puro o
accademico - il professore, il docente,
il dottrinario - non è solo colui che
predica l’essere immoto ma anche il suo fratello gemello o collega di
dipartimento che ne sostiene l’inconsistenza assoluta. Entrambi sfuggono per
mestiere al fiume della vita.
Essere e divenire presi separatamente sono due
astrattezze - o due insensatezze - che nascondono l’idea politica di dominare
totalmente la vita. Invece, essere e divenire vanno presi sempre insieme perché
sono l’uno il rovescio dell’altro: il divenire ci dà da pensare e l’essere,
tenendolo insieme proprio come divenire, lo identifica momentaneamente e ci
consente di vivere nell’unico modo possibile: morendo.
La vita è a tutti gli effetti un fiume. E noi dobbiamo
imparare a pensarne le acque per solcarle. A volte le acque sono calme, a volte
impetuose, a volte si naviga con sicurezza, a volte c’è la tempesta. Non tutto
è nelle nostre mani, ma nemmeno tutto è al di là delle nostre forze. Bisogna
curare le acque perché prima o poi la tempesta arriva. E quando arriva è da
stupidi prendersela con le acque che fanno solo il loro lavoro. La Tempesta,
guardata fino in fondo, fin sul fondale, è la stessa forma concettuale della
vita che crea e distrugge, come una sorta di Eros morale. Machiavelli, che fece
del fiume la metafora della vita, sosteneva che virtù e fortuna si dividessero
equamente il campo: cinquanta e cinquanta. Magari i conti non tornano, magari a
volte è maggiore la fortuna (e la sfortuna), magari a volte pesa più la virtù,
il governo. Chissà. Le percentuali hanno sempre qualcosa di misterioso. Ma ciò
che realmente conta non è la percentuale: è lo scarto. Machiavelli lo aveva
capito: la nostra libertà non è data dal cento per cento di virtù o di governo,
che ci renderebbe schiavi di noi stessi e dei sacerdoti dell’essere immoto; né
dal cento per cento di fortuna o di caos, che ci lascerebbe in balia della
massa e dei giocolieri del divenire irrelato. La libertà degli uomini è proprio
lo scarto sempre vivo che c’è tra virtù e fortuna o, se più piace, tra governo
e vita. Perché la libertà è la lotta nella quale siamo e alla quale non ci
possiamo sottrarre se vogliamo essere liberi. Detto nel modo più concreto
possibile: la libertà è il dovere di non farsi governare oltremisura dagli
altri, qualunque cosa sia questo altri: un uomo, una donna, un partito, uno
stato, una chiesa, una moda, un vizio, persino un dio.
La vita liquida non è l’invenzione concettuale di un
brillante sociologo ma la condizione nella quale siamo sempre. Certo, a volte
la vita può essere più o meno liquida, più o meno acquatica o acquosa. Dipende
da quanta stabilità riusciamo a creare con le varie istituzioni e tecniche che
usiamo come, ad esempio, la famiglia, la scuola, il denaro, la legge, il
governo. Ma il liquame c’è sempre ed è necessario che ci sia per avere sia
stabilità sia senso. La comprensione delle cose e di noi stessi, quando
effettivamente c’è, è il passaggio nel liquame, nelle acque, nella melma,
insomma, nel dramma vivente che siamo. Se non c’è questo passaggio - siamo porte che conducono insieme all’inferno
e al paradiso - non c’è comprensione ma
solo ripetizione, suoni, mimesi, pappagalli, retorica e roba appiccicaticcia. La
differenza è fatta dalla vita stessa, da quanto ognuno di noi è disposto a
immergersi nelle acque del fiume che è.