di Luigi Ruscello
Devo confessare che ero euroscettico ancor
prima di Maastricht perché, tra l’altro, ritenevo che l’allora CEE avesse
contribuito a penalizzare l’agricoltura meridionale. Ma lo sono diventato in
pieno proprio dopo la firma di quel benedetto (!) Trattato.
Le mie riserve sulle clausole del Trattato non
erano dettate da fondamenti teorici, che sono propri degli economisti di
mestiere, quale io non sono, ma da aspetti pratici dettati dalla mia
professione.
Il primo riguardava la norma relativa al rapporto
debito/PIL e in particolare al suo rientro nel limite del 60% in un arco
temporale troppo ristretto. La mia critica era basata su un semplice pensiero,
e cioè: ad una azienda in crisi cosa si propone? La tecnica bancaria mi
suggeriva di allungare i tempi di rientro delle passività, in presenza, per
quanto ovvio, di un piano di risanamento. Allo stesso modo ragionavo per l’Italia
il cui debito era cresciuto in modo abnorme dopo lo scellerato divorzio tra
Tesoro e Banca d’Italia, avvenuto nel 1981 (nel 1980 il rapporto debito/PIL era
inferiore al 60%; mentre giunse al 121,84 nel 1994).
Costringere un’azienda in crisi a rimborsare
i propri debiti in un breve arco temporale, dunque, altro non provoca se non il
suo fallimento.
Le identiche considerazioni mi hanno portato
poi, negli anni a noi più vicini, a non condividere, nel modo più assoluto, l’approvazione
del fiscal compact.
È vero che la storia non si fa con i ‘se’, ma,
se la politica non avesse fatto fuori quel galantuomo e valentissimo economista
come Paolo Baffi, il divorzio non ci sarebbe stato e, soprattutto, le successive
trattative di Maastricht avrebbero avuto un corso del tutto diverso. Giova ricordare,
infatti, che l’unica vittoria italiana nelle trattative a livello europeo è
stata ottenuta proprio da Baffi in sede di SME, quando riuscì ad ottenere una
banda di oscillazione più ampia per la ‘lira’.
Inoltre, la regola del 3% come rapporto tra
deficit e PIL, la consideravo fuori da ogni principio economico, oltre che
scientifico. Si è scoperto poi che avevo ragione quando il funzionario francese
Abeille ha confessato le modalità di nascita del cervellotico rapporto.
Il secondo motivo di critica riguardava non l’euro
in quanto tale, bensì il sistema di cambi fissi. Sono convinto, infatti, come
già accennato, che se nel 1981 e alla vigilia della firma di Maastricht vi fosse
stato ancora Paolo Baffi come Governatore della Banca d’Italia, non ci
troveremmo oggi nelle condizioni di guardare al futuro senza alcuna speranza.
Sì, perché con le attuali regole l’Italia non si solleverà più. E se le
modifiche al “fondo salva stati” saranno quelle illustrate da Galli nell’audizione
in commissione, andremmo incontro ad una catastrofe.
Comunque, ritornando all’euro, Baffi era contrario
al sistema dei cambi fissi, come si rileva da una sua icastica dichiarazione: «Quando
si è eretto il feticcio dei cambi fissi le conseguenze sono state nefaste».
D’altronde, l’Italia fino ai primi anni
Novanta era andata avanti con le cosiddette “svalutazioni competitive” ed i
risultati non erano stati così malvagi se era giunta ad occupare il quarto
posto fra le potenze mondiali. È vero che gli effetti positivi delle
svalutazioni non sono strutturali, ma solo temporanei, da cui il susseguirsi
delle svalutazioni stesse, ma almeno evitavano di andare in recessione e
garantivano una certa crescita che riusciva a contenere il maggior costo del
debito pubblico.
Sempre nelle discussioni dell’epoca, cioè
alla metà degli anni Novanta, non mancavo di sottolineare che l’effetto più
diretto di Maastricht sarebbe stato la sostituzione della svalutazione monetaria
con quella cosiddetta “interna”, cioè la progressiva riduzione dei costi del
personale per mantenere un certo grado di concorrenzialità.
Oggi, purtroppo, paghiamo il conto di tutte
quelle scelte sbagliate, cui una debole, per non dire imbelle, classe dirigente
(politico-economico-culturale) non ha saputo, non dico trovare una soluzione,
ma neanche una parvenza di correzione. È brava solo nel professare un “europeismo
di maniera”.