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Lì dove tutto ritorna, nei racconti della Fappiano

giancristiano desiderio
Pubblicato da in Samnium · 12 Maggio 2019
Tags: TeleseCerretoFappianodeLiguoriCroce

di Alessandro Liverini

Il passato che ritorna al presente è il passato che interroga e che inquieta, è il passato in cerca di espiazione e compimento. Nei Due racconti per il teatro di Gioconda Fappiano, ritornano al presente sia Oronzo Cerri - medico e commediografo vissuto nella Cerreto nel XVIII secolo - per togliere il suo lavoro teatrale dall’oblio della censura e consegnarlo al proprio destino di opera d’arte, sia la colpa contagiosa di una madre che abbandona il proprio figlio per amore. E assieme alle angosce e miserie e speranze dei singoli - sullo sfondo - ritornano le stagioni perdute. Ritorna la storia moderna di Telese, che è storia di contraddizioni: di apertura, di vitalità, di lavoro, ma anche di violenza, di ipocrisia, di solitudini; e ritorna la storia moderna di Cerreto, che è anch’essa storia di contraddizioni: di cultura, di libertà, di ricchezza, ma anche qui di violenza, di ipocrisia, di solitudini.

Telese e Cerreto attraversano la propria modernità in due epoche diverse: Telese riemerge da un plurisecolare silenzio, dopo la distruzione del sistema feudale, a metà del XIX secolo, radicando la propria modernità sulle acque, e quindi sui mulini e sugli stabilimenti termali. Cerreto, invece, nel XVIII secolo, risorgendo dalle macerie del terremoto del 1688 con le botteghe dei faenzari della scuola napoletana e con le istituzioni scolastiche e religiose. Per quanto cronologicamente distanti, la modernità cerretese, prima, e la modernità telesina, poi, sono avvinte alle medesime contraddizioni esistenziali, travagliate dai medesimi problemi: la lotta tra verità e mistificazione, tra potere e libertà, tra passioni e calcolo. Ma in fondo, che cos’è la storia se non dubbio, lotta, mutamento?

A questa domanda, che è ricerca di senso, tenta di offrire nuovamente risposta la scrittrice e poetessa cusanese Gioconda Fappiano - a circa un mese di distanza dalla pubblicazione del suo pamphlet, titolato provocatoriamente, Come difendersi dalla bontà ed esercitare un sano egoismo. Lo fa con due racconti per il teatro. Lo fa - come in una sorta di dialogo dei linguaggi, di esercizio polifonico - confrontandosi con l’eclettico torinese Gianni Lavia, che ne ha curato l’arrangiamento in sceneggiatura teatrale. Mi sembra, però, che le due storie della Fappiano - titolate Dove tutto ritorna e Tutto per colpa di Oronzo e pubblicate per i tipi dell’Associazione Storica Valle Telesina - abbiano una vera e propria vocazione al romanzo. Se è vero che la sensibilità poetica dell’autrice orienta la scrittura verso la spazialità essenziale del teatro, è, però, altrettanto vero che lo spessore emotivo dei personaggi avrebbe meritato gli approfondimenti narrativi che solo la forma romanzo può dare. Traspare, in definitiva, nello stile della Fappiano una doppia anima: riflessione poetante e narrazione.

Interessante è, poi, come già anticipato, l’idea di inserire i due racconti in contesti storici e geografici precisi e definiti.

Meglio riuscito è, in tal senso, il racconto Tutto per colpa di Oronzo, che prosegue, in una sorta di meta-narrazione, il lavoro storiografico e filologico che nel 2004 Gioconda Fappiano aveva compiuto con la trascrizione, il commento e la pubblicazione dell’opera teatrale Cerreto modernata o Il sinedrio, scritta dal medico cerretese Oronzo Cerri in occasione del carnevale del 1769 e ritrovata in copia manoscritta dal giurista e storico Vincenzo Mazzacane nel 1916 fra le carte dell’arciprete Gabriele Biondi.

Lo sfondo è la Cerreto della seconda metà del settecento. Il tempo in cui le doti di equilibrio e l’impegno culturale di monsignor Filippo Gentile andavano declinando unitamente alle sue precarie condizioni fisiche. Ricordo - incidentalmente - che fu proprio l’impegno profuso dal vescovo Filippo Gentile ad incidere sul rilancio del seminario cerretese. Sotto il suo magistero, Cerreto divenne prestigioso centro di formazione del clero, con una media di ottanta alunni per anno. In quegli anni teneva le lezioni la triade degli scienziati (il teologo Michele Ungaro, il letterato Pietro Iuliani, il matematico Albenzio De Nigris).

La sua fama di organizzatore e regolatore della vita culturale e spirituale dei novizi giunse alle orecchie di Alfonso Maria de’ Liguori che gli fece visita dopo una missione a Nola (ove, nel 1754, aveva composto la celebre canzone Quanno nascette ninno). Nella Vita del b. Alfonso Maria de’ Liguori Vescovo di S. Agata de’ Goti, scritta da Pierluigi Rispoli nel 1834, si narra che il servitore del vescovo cerretese, non avendo riconosciuto il già allora famoso prelato, ne annunziò così il suo arrivo nelle stanze diocesane: «Fuori c’è un prete straccione, che pare un romito e che si chiama Padre De Liguori». Ebbene, l’epoca d’oro del seminario di Cerreto, però, fu repentinamente soppiantata da una meno edificante epoca di abbuso de Confessionili inaugurata da don Emilio Gentile, nipote del vescovo e che divenne, a sua volta, vescovo di Alife. Ed è in questa temperie - in questa epoca di transizione - che il Cerri scrisse la Cerreto modernata. Essendo un’opera di denuncia e di sberleffo circolò sottobanco e non fu mai messa in scena presso il locale Teatro del Genio.

Il Cerri puntò dritto alle radici della corruzione sociale, al connubio paludato tra potere politico e potere religioso. Tanto è vero che gli si scagliò contro l’establishment a lui coevo e postumo. L’erudito Nicola Rotondi, non pochi anni dopo, ebbe a definire Oronzo Cerri «vil buffone, cantor di Rinaldo, ispirato dal demonio». Forse è anche a causa di questo clima pesante che Oronzo Cerri scelse di non vivere nella sua casa palaziata di Cerreto, ma di trasferirsi in una villa a piè di Montacero. Nel racconto della Fappiano, Oronzo ritorna al presente sperando che la sua opera possa avere il meritato successo. Ma i tempi sono cambiati? O forse con Oronzo ritornano al presente anche le stesse paludi e gli stessi sepolcri imbiancati del passato?

Una più incerta, ma non meno interessante, tradizione storica fa da sfondo, invece, all’altro racconto della Fappiano, Dove tutto ritorna. L’autrice affronta il tema del senso di colpa, della incomunicabilità e della violenza endofamiliare, dell’amore che trionfa sul pregiudizio e lo fa utilizzando come campo narrativo un luogo paradigmatico: la familja romanès. A ben vedere la scelta è astuta. Il familismo amorale - al quale il sociologo americano Edward Banfield ricondusse le ragioni dell’arretratezza del sud Italia - traspare più nitido, schematico e semplificato nel contesto familiare rom, ove il senso di fedeltà alla tradizione e, quindi, la nettezza dei confini tra il bene e il male, tra il giusto e il peccato, tra l’onore e la vergogna è molto più spiccato.

A Telese gli zingari arrivarono negli anni venti del XX secolo dalla provincia di Foggia, dalle terre a ridosso dei colli fortorini, segnatamente da Alberona e Castelluccio Valmaggiore. Seguirono il corso dei fiumi Miscano, Ufita e Calore. Non a caso alcuni romanì vissuti poi a Telese avevano fatto tappa - sempre lungo l’asse del Calore - ad Apice e a Ponte. L’arrivo degli zingari in valle telesina è da ritenere, dunque, frutto di un movimento spontaneo e non coatto. L’ultimo atto di una migrazione millenaria, originata dall’India, passante per la Persia e la Grecia e giunta sulle coste del sud Italia via mare. L’arrivo a Telese è dunque un lacio drom (buon viaggio) e non una deportazione. In quel periodo, infatti, vigeva la famigerata circolare 11 settembre 1940 del capo della polizia Arturo Bocchini (originario di San Giorgio Del Sannio), in forza della quale gli zingari italiani dovevano essere rastrellati e confinati in luoghi isolati o in veri e propri campi di concentramento (tra i più vicini: Vinchiaturo e Agnone). E Telese in quegli anni - per la sua posizione geografica e per le sue caratteristiche urbane - era stato identificato proprio come luogo di confino per gli oppositori politici. Ma ormai è certo che gli zingari arrivarono a Telese da soli, in piena libertà, sicuramente attratti dalla scarsa densità abitativa, dalla presenza di molti corsi d’acqua e della centralità geografica e lo fecero ben prima che il regime fascista mostrasse il suo volto più crudele.

A Telese le prime famiglie di zingari si insediarono a ridosso del piccolo villaggio allora esistente: piazza Mercato, via Roma, le potechelle. Si integrarono abbastanza bene. Dopo la seconda guerra mondiale, ai primi nuclei familiari se ne aggiunsero di nuovi, provenienti sia dall’area foggiana, sia dall’area abruzzese, sia dall’area casertana. Tra la fine degli anni sessanta e settanta, alcune famiglie vennero sistemate in piccole baracche di fortuna sul corso del Grassano, in un fazzoletto di terra tra il corso d’acqua principale e il controfosso destro. Nel 1971 venne edificata una piccola baraccopoli a Via Isonzo, a ridosso del muro perimetrale dell’oleificio Palmieri. Questa, nel volger di poco tempo, fu eliminata con un incendio doloso. I primi segnali di insofferenza e di conflitto iniziavano a manifestarsi. La Fappiano, seppur con qualche licenza narrativa, cerca di entrare in questo mondo, per disvelare i tratti più brutali e contraddittori e asfissianti della normalità. Ne viene fuori una storia avvincente che inizia negli anni cinquanta, all’epoca dello straripamento del fiume Calore avvenuto il 2 ottobre 1949 e finisce ai nostri giorni.

Oronzo il letterato e Agata la zingara - ai quali fa da ponte sentimentale la bocca di rosa cerretese, Bellezza - sono in cerca di una cosa molto semplice: la serenità. Entrambi piombano nel presente - dal passato, dai nodi della storia - per espiare colpe e rasserenare l’intelletto.

E così - se è vero che anche nell’arte poetica, come nel giudizio storiografico, «la spassionatezza dell’artista, intesa come indifferenza di lui innanzi ai problemi della vita è un’utopia, anzi un assurdo» - Gioconda Fappiano fonde magistralmente la poesia e la filosofia, che è giudizio storico o, come direbbe Benedetto Croce, «storia senz’altro». E lo fa perché è in cerca di una cosa molto semplice: la serenità; la serenità necessaria per tornare al lavoro, alla vita quotidiana fino a che nuovi problemi, nuove angosce, nuovi tarli e contraddizioni - del cuore e della mente - le si pareranno dinanzi



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