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Quando c'erano le ortensie

giancristiano desiderio
Pubblicato da in Povera e nuda · 29 Luglio 2019
Tags: sant'agatadeigotiortensiescuola

di Giancristiano Desiderio

Quando c’erano le ortensie nel piccolo vialetto d’ingresso del palazzo dei nonni materni c’era in primavera un profumo di violette che annunciava la bella stagione. I quattro giardini, due per ogni edificio, antistanti i due palazzi popolari costruiti nel secondo dopoguerra al di là del Martorano e al di qua della villa Picone, erano di proprietà dei condominii ma con un patto o sottoscritto o tacito ma comunque ben accetto erano stati ceduti al comune affinché li curasse. Gli operai del comune si trasformavano in giardinieri e potavano, innaffiavano, pulivano. C’erano pini, palme, siepi e le colorate ortensie che fiorivano donando un senso di vita che si rinfrescava e si rinnovava allontanando il deserto. Tuttavia, alla fine il deserto è arrivato: i pini sono stati tagliati, le palme abbattute, le siepi si sono offese e le fresche ortensie che annunciavano la vita nuova non ci sono più. Anche la signorina Felicita, che prendeva il sole sul balcone ed era bella come la luce dell’estate, è morta senza felicità.

Di rimpetto ai giardini della prima palazzina venendo dal Ponte voluto da Francesco Picone vi erano i giardini della scuola elementare che Francesco De Prisco, prima di cadere ferito a morte, fece in tempo a vedere. Il viale alberato di Sant’Agata dei Goti fu pensato verde, arioso e spazioso. La scuola aveva delle mura di cinta e un ingresso autorevole con due alti pilastri, un cancello, un vialetto e ai lati i giardini con piante e fiori che ombreggiavano le prime aule e i primi insegnamenti. Le maestre erano belle nella loro autorevole semplicità. Nonostante la presenza delle mura, i marciapiedi erano larghi. Anche i palazzi avevano delle mura e degli eleganti cancelli di confine che davano al viale ordine e signorilità.

Le mura divisorie diventavano alte là dove una volta tranne l’erba non c’era niente e seguendo sentieri e viottoli il paese si ricongiungeva alla selva sottostante dalla quale nasceva. In autunno, quando ingiallivano, rinsecchivano e cadevano, le foglie dei platani inondavano il viale e il vento soffiando e fischiando aveva il compito di spazzarle e riunirle sotto le alte mura come colline. I ragazzi, più verdi degli aghi dei pini, si lanciavano e si tuffavano dalle mura su quel soffice letto di foglie prima che le piogge le appesantisse e schiacciasse a terra.

I giardini dei palazzi popolari erano campi di battaglia per partite con le biglie. Erano palline di vetro che sembravano occhi rotolanti con cui i ragazzini in sandali e canottiera si sfidavano a colpi di rara bellezza ed eleganza. Bisognava conquistare una buca e con il dono ricevuto dalla buca-madre si potevano vincere le altre biglie se si riusciva a toccarle con la propria. Saper colpire le biglie con colpi da maestro voleva dire diventare delle vere e proprie leggende viventi e guadagnarsi il rispetto di tutti e delle varie tribù in cui era divisa Sant’Agata dei Goti: vi era la tribù di quelli che venivano da giù all’Annunziata e ancor più quelli che vanivano da Sant’Antonio Abate, naturalmente la banda del Duomo e quelli sfessati  - come diceva zio Normanno -  del Ponte. Ogni tanto qualcuno tirava fuori delle palline particolari che facevano uscire gli occhi da fuori a tutti gli altri. Erano i cosiddetti pallinotti: biglie di vetro più grandi che consentivano dei colpi più sicuri ma che al contempo, vista la grandezza, si esponevano anche ad essere colpite più facilmente. Per evitare il rischio si faceva ricorso a delle palline più piccole ma di ferro con cui si cercava di impallinare gli avversari. Le palline più ambite erano i pallinotti di ferro o di acciaio che i ragazzini avevano in tasca, nella tasca piccola dei jeans tagliati dalle mamme, come una specie di arma segreta dalla quale non ci si sarebbe separati per niente al mondo, almeno fino a quando tra i colori delle ortensie non sarebbero apparse le ragazze e l’innocente incanto del gioco sarebbe svanito con la dolorosa bellezza della malizia.



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