di Luigi Ruscello
La ripartizione territoriale dei flussi
finanziari dell’operatore pubblico non è un tema nuovo. Anzi, il primo
tentativo di effettuare una stima della ripartizione territoriale della
ricchezza e del relativo carico fiscale risale addirittura al 1891, quando
Maffeo Pantaleoni ne scrisse sul Giornale
degli Economisti. E che dire dell’incipit di Nitti risalente al 1900: «Questa ricerca ha per iscopo di stabilire la
situazione di ciascuna regione italiana di fronte al bilancio dello Stato».
Che la questione sia più che mai all’ordine
del giorno, al di là delle richieste di autonomia differenziata, è dimostrato
dal fatto che quando si scorrono i dati raccolti da Nitti, per il periodo
1862-1898, sembra di leggere uno degli odierni rapporti della Svimez o di altre
associazioni meridionalistiche.
Anche allora, infatti, non vi era una equa distribuzione
dei fondi. Il Nord, a fronte di una popolazione pari al 44%, ricevette dal
Ministero dei lavori pubblici il 47% delle spese effettuate, il Centro, con una
popolazione del 16% ricevette il 19%, il Mezzogiorno continentale poi, pur rappresentando
il 27%, ebbe solo il 22%, e le Isole, infine, andarono quasi in pareggio perché
col 14% di abitanti ne ricevettero il 13%.
Come ben si comprende, nulla di nuovo c’è
sotto il sole del Meridione. Eppure, dagli anni Cinquanta del XX secolo, si
sono susseguiti diversi provvedimenti tesi, almeno nelle intenzioni, a ridurre
il gap. Ma invano, perché le diverse riserve previste dalla cosiddetta “legislazione
per il Mezzogiorno” si rivelarono un vero e proprio bluff, come dimostrato
dalla Corte dei Conti fin dagli anni Ottanta.
Ora sembra che ci si voglia riprovare. Il governo
Gentiloni con il decreto legge n. 243/2016, convertito poi nella legge 18/2017,
stabilì che il 34% delle risorse ordinarie in conto capitale della
Amministrazione centrale, dal 2018, avrebbe dovuto essere destinato alle regioni meridionali, poiché il 34% della popolazione italiana risiede
in tali regioni.
Il provvedimento,
però, così come redatto, non era una grande cosa, ma anzi una presa in giro, perché
i due più grandi Enti di spesa, cioè ANAS e RFI, ne erano rimasti fuori.
La ministra Lezzi, con la
legge di stabilità 2019, ha posto rimedio a tale grave carenza, allargando la
regola anche alle due predette Società. Inoltre, ha previsto che entro il 28 febbraio di ogni anno le
amministrazioni centrali trasmettono al Ministro per il Sud e al Ministro dell’economia
e delle finanze l’elenco dei programmi di spesa ordinaria in conto capitale
(chissà se nello scorso febbraio è stato presentato l’elenco).
Tutto risolto? Macché.
La critica che mi sento di riproporre, perché
già avanzata dalla Corte dei Conti, illo
tempore, riguarda la mancanza di sanzioni. Cosa accadrebbe, infatti, se le
amministrazioni centrali, ANAS e RFI non dovessero ottemperare alla norma? Nulla.
P.S.: le Ferrovie dello Stato-RFI, in un
comunicato del 20 febbraio scorso hanno quantificato in 14,6 miliardi gli
investimenti programmati fino al 2025 in Lombardia. Considerato che la
popolazione della Lombardia è pari al 17% di quella italiana, al Sud dovrebbero
spettare circa 30 miliardi.
Mi scappa da ridere!