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Critica del giudizio gastronomico

La pasta stregata
di Antonio Medici

Un insolito asse tra la costa e l’area interna della Campania, tra estro e tradizione, audacia e sapienza. Vengono in mente queste traiettorie nel raccogliere la storia che ha legato la coppia di imprenditori napoletani, i fratelli Francesco e Marco Marrone, a un piccolo, storico pastificio artigianale del Sannio, Pastai Sanniti, rinominato, dopo il sodalizio di due anni orsono, Antico Pastificio Sannita. Si fosse trattato di una cruda e secca vicenda societaria, non ce ne occuperemmo in questa rubrica. Sennonché l’alchimia partenopeo-sannita ha partorito la “pasta stregata” ovvero una pasta arricchita dall’aroma del famigerato liquore Strega, prodotto nella città del noce e delle streghe, appunto.

Nel mercato contemporaneo dell’alimentare, caratterizzato dai prodotti etichettati “senza” qualsiasi cosa, dal glutine, al sale, all’olio di palma (provare a entrare nella più vicina drogheria per verificare quanti “senza” si leggono sugli incarti) realizzare un prodotto alimentare con l’aggiunta di un ingrediente, per altro normalmente estraneo e inatteso, è un atto sovversivo.
Una sovversione che realizza anche, volendo usare un linguaggio manageriale, una grande innovazione di prodotto. Negli scaffali della pasta, difatti, le novità si limitano ai nomi dei formati, ai pacchi e alle carte, alla narrazione delle farine impiegate, presunte antiche, al più si trovano paste realizzate con legumi, ma il prodotto resta lo stesso e, anzi, i pastai cercano di spiegare che il gusto è quello classico, tradizionale, antico, di sempre.

La pasta stregata, invece, giunta sul mercato dopo lunghe sperimentazioni, si propone per un gusto nuovo.

Ma com’è questa pasta stregata? L’abbiamo provata senza condimento e in tre preparazioni elaborate ad hoc dal cuoco Marco Pietrantonio, del Cotton Club di Benevento: con crema di zucchine, pomodori secchi e arancia, con cuori di carciofo e mele, con pesto di melanzane, rucoletta e limone.
Quest’ultima ci parsa la ricetta più riuscita perché enfatizza ed armonizza il retrogusto stregato della pasta, un ricordo estremamente gradevole del liquore sannita dalla ricetta segreta.
La golosità del cronista l’ha spinto, in segreto, a un’ulteriore sperimentazione con ragù bianco di carne e una spolverata di cacao. Gusto delizioso.

La pasta stregata ha il merito di creare un legame esclusivo con un territorio e di fare di questa identità un contenuto di gusto peculiare. Pare questo un preciso disegno di marketing del pastificio, che nello scorso anno ha brevettato il formato “papalina”, concavo come una scodellina, goloso per un verso, perché raccogliere il condimento, per altro allusione esplicita al copricapo del Pontefice e al regno che ha segnato la storia di una parte del territorio della Campania.
Coniugare golosità, gusto e storia, è l’impresa, insomma, dell’Antico Pastificio Sannita, il cui cuore batte di managerialità partenopea e cocciuta artigianalità sannita.





Albana La Torre
Il mio Alter Ego
di Antonio Medici

Maria Beghi è una donna minuta, essenziale, scarna di orpelli, scabrosa quasi nell’abbigliamento campestre, asciutta d’eloquio. Al contempo sono nobili il suo pensiero, i suoi gesti, la sua cultura, il suo rapporto con la natura e tenuta Albana, atavica proprietà famigliare. Determinata e gagliarda nella conduzione dell’azienda agricola così come del gippone necessario per attraversarla.
Era tra fine maggio e inizio giugno di un anno fa quando venne a prendermi sulla strada di Campiglia, poco fuori La Spezia, al margine sudorientale del Parco delle Cinque Terre.
È passato un anno, tanto ci è voluto per elaborare quella visita e maturarne un pezzo, come fosse un vino, che è l’Alter Ego, millesimo 2016, tratto dalla cantina e stappato qualche giorno fa. Un bianco dal colore intenso, consistente e denso, pieno e soggiogante coma la tenera e cordiale accoglienza di Maria, che lo firma in etichetta, a penna, oltre che col lavoro di vigna e cantina insieme al guru della viticoltura contemporanea delle Cinque Terre, Walter De Batté.
Inondazione odorosa della ricchezza di quello spicchio di Liguria: fiori, arbusti, erbe aromatiche, terra, roccia, mare, sole, maturazioni e macerazioni. Bere l’Alter Ego è come attraversare la tenuta, la stupefazione che si rinnova, lunghissima, a ogni curva tra trecento metri sino a cinquanta sul mare, a ogni sorso, a ogni zaffata di vapori odorosi e saporiti che risalgono dopo aver masticato e deglutito il vino.
Un ettaro e mezzo di vignato, un latifondo per unghia di terra che sono le Cinque Terre, vendemmiato per tradizione famigliare per il 27 settembre: “coincide sempre, stranamente con la maturazione perfetta delle uve”.
L’Alter Ego è senza denominazione ma, come il Cinque Terre DOC, è prodotto dalle allogene uve bosco, albarola e vermentino.
Albana La Torre, questo il nome dell’azienda, produce anche un rosso dai pochi filari, a ridosso del mare, di marselan, vitigno incrocio di grenache e cabernet sauvignon.  
“Non abbiamo cremagliera, facciamo tutto a mano, ma siamo high tech, disponendo di un trattorino”, racconta Maria mentre piano scivoliamo a scattoni tra splendide campanule viola chiaro e macchie di ginestre che piovono colori e profumi dalle rocce ai margini di lecci opulenti.
Ha fatto spostare due ulivi secolari, riportandoli più in alto nella tenuta, dove, secondo le sue ricostruzioni, era la loro dimora originaria e ideale. Le parole del racconto sono sofferenti quanto il dolore che le piante, è sicura, provino per il trasloco.
Nella cucina della isolata e svettante villa con torre, affacciata su un mare nostalgico e benevolo, costruita dal nonno nella seconda metà dell’800, Maria offre delle focacce appena sfornate, prese per accompagnare l’assaggio dei suoi vini, preziosi per personalità, sapienza e cultura, e altri racconti di botti di castagno, di asciugamani bagnati per tenere umide le botti, di trasporti di uve via mare fino a Portovenere, di discussioni con Walter (De Batté).

Azienda Agricola Albana La Torre
Via Castellana, La Spezia
www.albanalatorre.it
Alter Ego 2016
€ 30,00





Se Amazon rimane a bocca asciutta
di Antonio Medici

“Il prossimo ventiquattro giugno cesseremo il nostro servizio Amazon Restaurants negli Stati Uniti”. La dichiarazione è di un portavoce del colosso americano di vendite online ed è stata rilasciata al portale GeekWire (ripresa anche in Italia da AGI).
Esiste, dunque, una Amazon perdente ed è quella del cibo. Il servizio Amazon Restaurants era stato avviato nel 2015. I clienti Prime di Amazon potevano ricevere pasti a domicilio, ordinandoli tramite app.
Lanciata a Seattle, l’iniziativa, era stata allargata a ventitre città americane e poi oltreoceano a Londra. Dopo un primo taglio di dipendenti del novembre 2018, la società aveva allargato il servizio in nuove città a inizio 2019 e migliorasto il blog e la app fino al mese scorso. Le cronache americane fanno notare che l’account Twitter è ancora attivo e registra nuovi cinguettii.
La ritirata dopo i grandi investimenti effettuati rappresenta un episodio davvero eccentrico nella storia della società indiscussa leader mondiale nel settore dell’e –commerce e suona incredibile alle orecchie dei degli osservatori e degli analisti di mercato.
Non è affatto chiara la reale strategia della società che è ancora presenta con la consegna di ortaggi e altri generi alimentari (non cucinati) in oltre cento piazze americane.
Uber Eats, una delle tre società che controllano il 75% del mercato della consegna di pasti a domicilio e che, lanciata solo tre anni fa, ha realizzato un volume di vendite di quasi un miliardo e mezzo di dollari nel 2018, raddoppiando il risultato del 2017, all’inizio del 2019 aveva incluso Amazon Restaurants nella lista dei principali concorrenti in un documento ufficiale di mercato.
In effetti Jeff Bezos ha effettuato il mese scorso un investimento di oltre mezzo miliardo di dollari per acquisire una quota di Deliveroo, una società anglosassone specializzata nella consegna di cibo a domicilio. È ben possibile, dunque, che la ritirata dal mercato di Amazon Restaurants sia temporanea e prodromica a una riformulazione dell’offerta e un ritorno in grande stile magari in Europa dove Deliveroo è decisamente più forte.
Il servizio della consegna di cibo pronto a domicilio è molto florido in alcuni paesi europei (Germania, Gran Bretagna, Russia e Francia) mentre in Italia è ancora in una fase di espansione e risulta attivo essenzialmente nelle città di maggiori dimensioni e in alcune località turistiche. I dati statistici appaiono ancora contraddittori, ma segnalano che il settore è dinamico. Secondo indagini Coldiretti 4,1milioni di italiani ordinano stabilmente cibo pronto a domicilio, mentre una ricerca di Dealroom stima in trenta milioni gli italiani che hanno già sperimentato questo tipo di servizio.






Meglio la cucina che l’autografo di Cedroni
di Antonio Medici

Il mare d’inverno, in questa primavera invernale, riserva sensazioni poco scontate, uno spleen che allarga i pori dell’anima al rumore schiumoso delle onde e a quello vitreo, pungente dei granelli di sabbia fucilati dal vento contro le doghe e i tubolari bianchi dei lidi letargici. All’ora di cena, il maggio uggioso di quest’anno spande un bagliore grigio polveroso, ravvivato o incupito, a seconda dei tumultuosi, quanto le onde, sobbalzi d’umore, da riflessi ocra. Così la via che costeggia il mare di Senigallia e accompagna alla Madonnina del Pescatore, il ristorante bi - stellato di Moreno Cedroni, diritta e piatta come una fettuccina, la si avverte come fosse il bordo merlettato di una mafaldina.

La penetrante bellezza del contesto svanisce valicata la soglia del locale, quando si resta travolti dalla banalità di un’architettura senza identità, qualcosa di analogo a una borsa Burberry’s o a un foulard Louis Vuitton, rifugi di chi non sa essere elegante con personalità, il segno omologato e omologante di noiose indoli.

È un peccato perché la cucina di Cedroni di personalità ne ha da vendere. La sua cifra è spiegata subito dalla frittatina, frutti di mare, erbe di campo. Un inno jazz, intonato con armonia nel disagevole campo dei sapori forti.
Nello spazio che vorrebbe alludere a un chiosco di canne, sul pavimento rosso passione e sotto mille lucine confuse al soffitto, Paolo fa il regista fantasioso e istrionico di un servizio elegante e ineccepibile che ha in Ilaria il giovane talento, capace di empatia e tocchi di classe. A latere si aggira discreto il sommelier, un gigante incurvato dagli stappi, figura teatrale, muto che esprime a gesti sapienza e pathos.

Testa e collo di ricciola, salsa di carote e zenzero implicano lavoro di polso. Fa giustizia questa portata di parti che l’ignoranza dei commensali potrebbe indurre a trascurare. Il lavoro di estrazione della polpa ha il suo ristoro nella pienezza del sapore e nella soddisfazione di bocconi senza spine.
Il menù “vicino alla tradizione” si apre, poi, agli spaghetti con pannocchie, carciofi, fegato grasso d’oca e caffè, che sono più lunghi nella pronuncia che non nel gusto e ai più gratificanti tortellini di parmigiano liquido, carne cruda battuta al coltello e salsa di pomodoro e basilico.

Da una carta che non impressiona, i calici in abbinamento sono appropriati e serviti senza pidocchieria.
Il guazzetto qui è al forno ed è ottimo, arricchito da sottili quanto saporiti filetti di spigola cruda. Un piatto che è il paradigma di come il genio, con semplicità e tecnica, possa migliorare, senza stravolgerle, le preparazioni cosiddette tradizionali.
Buona la “albicocca che voleva essere Sacher”, una sorta di destrutturazione della torta austriaca,

Il mondo della gastronomia stellata, l’abbiamo ripetuto più volte in questa rubrica, vive di pajette, autocelebrazione e scarsa umiltà. Accade così che Cedroni, ritenendo di fare omaggio ambito, cede alla volgarità di autografare, non richiesto, il menù ripiegato in un bell’astuccio di cartoncino azzurro.

Madonnina del Pescatore
Senigallia (An) - Via Lungomare, 11
Tel. 071 698267
Menù degustazione 130/150

info@ilgourman.it






Pulcinella, pizze e pistole
di Antonio Medici

Per la prima volta, almeno in questa rubrica, la recensione ha per oggetto un paio di pizze prima e piuttosto che una pizzeria, di cui pur dirò. È una sovversione alle regole, ma è pur giusto partire dalle pietanze per far risaltare chi le propone.

Un cordiale cameriere serve al tavolo, spaccata in quattro su un piatto di foggia marmorea, una pizza che tutto sembra fuor che una montanara. Se la montanara è un grumo bruno di pasta fritta, spesso del peso del piombo, condita con un cucchiaio di sugo, una manciata di parmigiano e una foglia di basilico, quella che ci si para innanzi è un disco piano e spesso, ricoperto di pomodoro, mozzarella, formaggio e basilico. Il gentile maggiordomo in livrea marroncina declama a memoria la filastrocca: questa montanara è cotta al forno e poi fritta, il fior di latte è di pezzata rossa (la mitica mucca che dà il miglior latte da formaggio, quelle delle pubblicità della Milka, perché più ricco di grassi saporiti).

Da quando ho cenato con Roberta Schira, assistendo ai rimbrotti precisi e ineccepibili allo chef stellato, non ho più il coraggio di parlare con cuochi, camerieri e pizzaioli, ove lo avessi mai avuto. Il mio reclamo è il mutismo rimuginante. Nel caso in specie resto muto dopo la filastrocca, prefigurando di dover scrivere terribili parole. Sennonché il primo morso a questa montanara insolita restituisce la sensazione di addentare una nuvola di pasta saporita, fritta ma non unta, delizioso supporto di leggerezza aerea al condimento succulento. Si scatena, allora, la loquacità con la mia bella commensale, già disperante per la pessima serata di silenzio che stava prefigurandosi.

A Montesarchio - iniziamo a rivelare i dettagli del luogo - ridente (si dice così, vero?) paesino caudino, dominato dalla bella torre dei D’Avalos a sua volta dominata dal fianco sud del magnifico Taburno, sono giunto con l’auto di lei, avendo scambiato il passaggio con la promessa di tornare a Napoli per la notte. A veder il chiar di luna sul mare, ben inteso, non si pensi a male.
La seconda pizza, delle almeno sette provate in due visite, ad aver conquistato il merito del racconto è la “cheese inside”. Non è in realtà una pizza, piuttosto un rituale sacro votato al dio della pizza ai quattro formaggi che qui sono ben sei e tutti eccezionali: il fior di latte di cui sopra, l’erborinato di pecora, che si integra senza coprire i sapori, la caciotta padulese e quella di capra, che dà un pizzico di fresca acidità, ciò che spesso manca alle pizze col formaggio, il caciocavallo e la lattica affumicata. Il ben di dio, con l’eccezione del fior di latte, è sistemato a crudo sulla pizza dopo la sua cottura.

Il frate officiante serve il piatto sacrificale, declama i formaggi e poi, minaccioso, estrae la pistola. Piomba nuovamente il silenzio ma è solo un attimo, il tempo che l’azione del grilletto sprigioni la fiamma bluastra che fa dei formaggi crudi un unico amalgama dal sapore esplosivo. Si resta ammutoliti, sì, ma per lo stupore esaltato delle papille gustative, per il piacere lascivo che si propaga dalla bocca e scorre nelle vene e in ogni capillare periferico, arrivando a far battere il cuore di emozione impudica.

Giuseppe Bove, si chiama così l’artefice di cotanta impresa. Originario di Maddaloni, figlio d’arte di un noto cuoco, inizia, appena valicati i vent’anni, la sua esperienza autonoma con un ristorante a Santa Maria a Vico. Esperienza immatura, foriera di affanni. Eros e Tiche, amore e caso portano Giuseppe a Montesarchio per la sfida contro le sventure del passato, per il riscatto. Sfida umile, partendo dal gradino più basso della cucina, quella del pizzaiolo, lui che nasce cuoco. Studio, sperimentazione e manicale cura dei dettagli sono le fondamenta su cui poggia la risalita, concretizzatasi nel passaggio dal piccolo locale con pochi tavoli a quello più grande attuale, stretto solo per la folla di chi cerca una buona pizza.

“L’arte del pizzaiolo sta nella gestione della cottura in bocca di forno. Noi controlliamo ciascuna pizza prima che esca dal forno e abbiamo una persona dedicata a gestire solo l’ultima fase della cottura. Se c’è qualche bruciatura, buttiamo la pizza”.
L’accoglienza è fuori dalla frequente brutalità sannita, si concretizza in disponibilità, attenzione, pulizia.
I prezzi, nonostante l’alto pregio delle materie impiegate e della pizza nel complesso, sono contenuti. Ottima birra alla spina, buona selezione di birre artigianali e vini.
Menù, come di triste moda, vastissimo.

Non accetta prenotazioni ma il numero di addetti al forno e alla sala consente un rapido ricambio dei tavoli, le attese, pertanto, non sono epiche e soprattutto sono ben giustificate.
Non amiamo i confronti e le classifiche, ma non esitiamo a porre il Segreto di Pulcinella sul podio delle migliori pizzerie della provincia di Benevento (che sventuratamente sono pochissime).

Il Segreto di Pulcinella
Via Benevento, 36c - Montesarchio





Hamburger per tutti con Harry Potter nella città delle streghe
di Antonio Medici

Harry Potter, il maghetto più famoso del mondo, ha abbandonato il Regno Unito e si è trasferito nella città delle streghe. I suoi hamburger, per meglio dire.
Due under 35 sanniti, hanno creato l’intruglio magico per aprire l’Ollivanders Public House sotto il noce, miscelando la passione per Harry Potter, un pizzico di esperienza lavorativa, la voglia di fare impresa. È nato così il pub del mago a Benevento, uno dei pochissimi in Italia.
Nei locali che furono di una antica bottega d’artigiani, a pochi passi dall’arco di Traiano e dalla chiesa di Santa Sofia, patrimonio Unesco, il locale prende il nome dal venditore di bacchette magiche della saga ideata da Joanne Rowling e che pare attrarre turisti mangioni da tutto il sud. “Arrivano da Taranto, dalla Calabria, da Napoli, Caserta, Salerno”, racconta Danilo, il più giovane (classe 1986) dei titolari. Il flusso è tale che “stiamo pensando di fare una convenzione con qualche albergo perché chi viene da lontano resta anche per la notte”.
L’offerta di panini è variegata quanto lo sono i personaggi del romanzo fantasy da cui mutuano il nome.
Con spirito d’osservazione proprio dei curiosi, i proprietari hanno colto la tendenza delle mega farciture così servono torri elevate con ogni ben di dio di carni, formaggi, verdure, salse, cui il pane fa giusto da pavimento e solaio.
La qualità degli hamburger è buona, gli abbinamenti studiati per accontentare tutti, le fritture per appagare i più lussuriosi.
Discreto l’assortimento di birre, ma il clou della carta delle bibite è la “burrobirra”, la bevanda analcolica degli allievi della scuola di magia di Hogwarts.
Tutto il pub rimanda al fantastico mondo cui si accede dal binario 9e ¾ della stazione di Kings Cross. Il soffitto è affrescato con i simboli delle quattro casate della scuola e le pareti sono oberate di quadri, stampe, riproduzioni di oggetti che evocano personaggi e ambienti della saga. In fondo a una delle sale, poi, anche una copia della scopa magica con cui i provetti maghi si sfidano a quiddich, una sorta di hockey volante.
Sui tavoli, un po’ troppo stretti, pensati, forse, per chi abbia il magico potere di restringersi, le tovagliette riproducono la mappa malandrino, ovvero la piantina magica di Hogwarts attraverso cui gli studenti più indisciplinati possono seguire gli spostamenti dei professori, sì da evitarli.
Nel complesso un’offerta adeguata ad un pubblico indifferenziato con prezzi più che accettabili (tra i sei e gli otto euro per gli hamburger).
Non accettano prenotazioni all’OllivanderS, se non per il primo turno delle 19.30. Apprezzabile, in una città troppo spesso serrata, la scelta di restare aperti tutti le sere.
Gli elfi domestici giù nelle Cucine stavano superando se stessi con una serie di ricchi stufati speciali e ottimi pasticci, e solo Fleur Delacour riusciva a trovare qualcosa di cui lamentarsi." (cit. “Harry Potter e il calice di fuoco”)

Ollivanders Benevento Public House
Viale dei Rettori, 34
Tel. 342 958 3836





Il Montiano, un vino per amare
di Antonio Medici

Tanti vini si fanno bere, alcuni si fanno amare, altri, pochi, fanno amare. Il Montiano è uno di questi ultimi. E’ il primo rosso che iscriviamo nella lista preziosissima dei vini da offrire a colei o colui con cui volessimo amorevolmente intrattenerci.
Lo produce la cantina di quel demone, essere a metà tra dio e uomo, di Riccardo Cotarella, l’enologo italiano più famoso nel mondo, onorato in Francia, artefice delle etichette di personaggi illustri italiani e non, moderno manager del vino.
Un divino dissacratore del terroir, rispetta la natura, ma non la asseconda, impone la legge della conoscenza: gli basta assaggiare una terra per figurarsi viti e vino quella terra non mai dato. Lo chiamano Mister Merlot, per alludere al massiccio uso dell’ammaliante vitigno girondino nei suoi vini.
Il Montiano nasce appunto da rosse uve di viti Merlot, impiantate, toh, a Montefiascone, patria del bianco (la DOC locale è la Est! Est! Est! a base di varie tipologie di Trebbiano).
Un po’ di bianco c’è anche nel Montiano perché il demone, forse ironicamente, forse per uno dei suoi colpi di genio, vinifica in bianco una parte (il 20% riporta la scheda tecnica) delle uve destinate alla produzione di questo vino rosso che attribuiremmo più a Eros che a Dioniso.
Il tenore alcolico è sostenuto (14,5 nel millesimo 2005), ma, come il seduttore che dissimula le sue armi, non si avverte dapprincipio, colpisce alla fine, quando la messe di profumi e di piacevoli sensazioni hanno predisposto il cuore, col sangue che scorre caldo e rapido e non resta che amarsi.
Nell’esame visivo ci va anche l’elegante etichetta; una porticina rossa risalta tra il bianco e l’oro, simbolo della via di passione cui si accede attraverso il nettare contenuto nella bottiglia. Rubino profondo, corposo già a guardarlo roteare nel bicchiere, sprigiona profumi di spezie dolci, fiori maturi dai petali doppi e vellutati, piccoli pungenti frutti rossi, languide confetture colloidali. E’ straordinario come la ricchezza olfattiva lasci immaginare sensazioni tattili. Accarezza il palato un velluto sferico, le gengive appena morse dal tannino rivestito di chiffon. I sapori sono quelli anticipati dai profumi, in una straordinaria coerenza che poi si scioglie nella lunga variazione minerale finale, saporita, stuzzicante.
Immancabile in cantina, maneggiare con cura, stappare all’occorrenza.

Montiano – Merlot Lazio IGT
Famiglia Cotarella
€ 30 in enoteca
(degustazione di aprile 2019 - millesimo 2015)




La poesia del Vesuvio Caffè e il veleno del San Paolo
di Antonio Medici

In piazza Gabriele D’Annunzio, di fronte all’ingresso della curva B dello stadio San Paolo, il Vesuvio Caffè è un bar accogliente e goloso anche nei momenti di caos che precedono le partite.
L’abbiamo scoperto in occasione di Napoli – Arsenal, io e mia figlia Anna Stella. Giunti con largo anticipo per poter goderne di quella coinvolgente ed esaltante atmosfera prepartita, vagavamo alla ricerca di un buon caffè e di gadget della partita, per aggiungere un nuovo pezzo alla collezione delle partite più svariate. Ci piace il calcio, ci piace il calcio allo stadio, ci piace il coinvolgimento emotivo che solo la confusione con migliaia di tifosi può dare. Abbiamo tifato a perdi gola per squadre per le quali mai avremmo immaginato di tifare, abbiamo tifato anche per singoli giocatori, per la classe, la bellezza delle loro gesta. Abbiamo avuto diverse tessere del tifoso, sin quando sono esistite, rammaricandoci che non esistesse una tessera del tifoso di calcio e basta. Il vulnus del sistema è proprio in questo, non riconosce l’esistenza del tifoso di calcio, ma solo del tifoso di una squadra.
Il Vesuvio Bar lo abbiamo scorto da lontano, colpiti da chissà cosa, e lì ci siamo diretti per un caffè. Ottimo, in tazza bollente. E’ stato il primo per Anna Stella, cui ho raccontato il culto napoletano per il caffè che include la tazza bollente come non si vede in nessuna altra parte d’Italia. Rimanendo a cincischiare nel bar, un grande forno verticale e piastre bollenti dietro un bancone di ogni ben di dio della cucina casalinga ha stuzzicato una fame che non poteva essere un bisogno di nutrimento, ma solo golosità. Provole, polpette, parmigiane, porchette, frittate di maccheroni, l’enciclopedia completa della napoletanità gastronomica. E poi l’apoteosi della lussuria gastronomica, la coda di un filone di pane, svuotata della mollica, riscaldata al forno, riempita di ciò che meglio aggradava a due giovani avventori. Impossibile resistere. Provola, polpette, melanzane a funghetto è stata la scelta.
Questo ben di dio di energia, ingurgitato con la scusa di avere sufficiente forza per sostenere la rimonta degli azzurri, è stato bruciato poco dopo all’ingresso dei distinti superiori. Quando un’hostess e un buttafuori vestito di nero, di cui a tutt’oggi non ho compreso il ruolo, se della società Calcio Napoli, della Polizia, del gruppo degli steward, hanno annichilito ogni nostra euforia e pure il mio decoro, la mia dignità di uomo e padre, prima vietandomi l’ingresso perché deambulante con stampelle e poi sequestrando le stampelle e la mia stessa persona, costretto per la durata della partita a restare immobile al mio posto, esposto a qualsiasi rischio, impossibilitato anche a far fronte all’eventuale bisogno di muoversi. Le stampelle abbandonate in un anfratto non noto e incustodite.
Un veleno difficile da smaltire.




Il Professore del baccalà
di Antonio Medici

Nello sciatto e opprimente giro d’orizzonte di una strada molto trafficata, tra pompe di benzina e negozi di elettrodomestici che cazzottano per annunciarsi con insegne giganti, come la migliore espressione di degrado urbanistico pretende, a poche centinaia di metri da uno degli snodi autostradali chiave del collegamento sud - nord, varcare la porta dell’Osteria del Baccalà è un po’ come finire nella tana di Bianconiglio, come entrare nel paese delle meraviglie (del baccalà).
Qui, nell’alto casertano, a Vairano Scalo, la mirifica tana è quella del professore Antonio Ruggiero, docente di istituti alberghieri, oste, sommelier, assaggiatore di formaggi, degustatore di oli, selezionatore di ottimi fornitori di baccalà, fantasioso ideatore di formule commerciali (baccaliata, olio aperitivo) e chissà cos’altro.
Il personaggio è vivace ed è l’antitesi dello stereotipo dell’oste che sta nella cucina del ristoro come nella cucina di casa, accogliendo gli ospiti familiarmente, con genuinità e grande inconsapevolezza di se stesso. Essere oste, in fondo, è un modo d’essere, presentarsi come si è, più che un mestiere. Ruggiero, tutt’altro, è uomo sicuro, audace, sa il fatto suo e fa quel che vuole non ciò che capita.
Qui ha allestito l’ambiente d’osteria tendente kitsch, con filari di agli e peperoni che calano da pertiche appese ai solai, tinteggiatura di giallo carico asfissiante, confusione di bottiglie alle pareti, vecchie puntine conficcate nei legni per fissare annunci plastificati. Tovaglie rigorosamente quadrettate e utilmente cartacee. Servizio cordiale e svagato. Carta dei vini inesistente. Eppure è un locale da non perdere.
Una nuvola odorosa di gadus morhua salinato (definizione tecnica di baccalà) investe gli avventori all’ingresso, illanguidendoli senza tradimento. Ciascun piatto è strepitoso. Il pasto è un percorso di espressioni e ululati di stupore. Dall’antipasto di carpaccio con mela, insalatina e peschiole, all’immancabile fritto. Il Fil di Ferro è una delle espressioni dell’eccentricità di Ruggiero: bavettine cotte molto al dente condite con aglio, olio, peperoncino e baccalà. Il sapore è intensissimo, il sughetto finale da iscrivere tra i piaceri lascivi della vita. Di altro registro la genovese di cipolle e baccalà, a dispetto di quel che ci si attenderebbe, un piatto carezzevole.
Il mussillo con peperone crusco è servito a mo’ di ventaglio aperto, con la carne del baccalà leggermente sfogliata. L’apprezzabile estetica denuncia la qualità assoluta del pesce.
La meraviglia finale, però, è un piatto da cucina del riuso: il fritto don Raffaele. Ispirato dal racconto di un cliente, il baccalà fritto del giorno prima è ripassato in abbondante sugo di pomodoro e condito con olio piccante.
C’è spazio per una chiacchiera finale con il professore che declama la filosofia della sua cucina, ma sarebbe meglio dire della cucina che dirige: “no ai metodi di cottura che modificano la struttura del cibo”. E su questo tema potrebbe aprirsi un simposio internazionale, meglio troncare e lasciare questo locale che vale la sosta e addirittura il viaggio.
Conto sui 25 euro, bevande escluse.
Osteria del baccalà
Vairano Scalo – via Napoli, 220



 
Le pizze di Civitillo e i vini di Masiero tengono insieme l’Italia
di Antonio Medici
 
Bacco e Cerere, dall’Antiquarium stabiano, osservando, chiaramente stupefatti, la stoltezza degli uomini contemporanei, intenti nelle basse imprese del sovranismo, del localismo e del neoborbonismo, devono esser intervenuti per dar missione a due degni uomini, lor devoti fedelissimi, di tessere una trama che serri salda unione della nazione.
 
Non si spiega altrimenti la straordinaria storia che da Trissino (profondo nord-est), via Torino (profondo nord-ovest) si dipana sino a Cusano Mutri (profondo sud interno), piccolo centro campano, al confine col Molise, incastrato tra il monte Erbano e il monte Mutria, assalito da folle di ogni dove della Campania felix per la festa dei funghi.
 
Da questo paese parte un minuto uomo, cui sparuta barbetta non riesce a incrinare, forse a dispetto della sua volontà, la dolcezza d’infante che tracima dalle fessure degli occhi e palesa un’amabilità infrequente. Ha nome Giovanni Civitillo, ha un locale che si chiama Millenium Pub e lavora con passione e gusto. Offre strepitose pizze, formaggi impareggiabili, salumi superlativi, ben fatti piatti tipici, non solo locali, e ottimi vini naturali (lo diciamo in questa rubrica che pur non ha un buon rapporto con i vini di questa fatta). La religione profana e laica di Civitillo è il naturalismo saporito: servire cibi saporiti preparati esclusivamente con ingredienti frutto di lavorazioni pulite e umane. Per questo esplora l’Italia in lungo e in largo. Pare retorica, ma la storia raccontata in questo pezzo testimonia il contrario.
 
A Torino nel 2015 Civitillo, sotto la Mole, al ristorante Gaudenzio, partecipa a una degustazione alla cieca rimanendo impressionato da un vino. Resta ignoto nome e produttore, le regole di queste degustazioni sono rigide. Solo dopo qualche mese, dopo insistenze, il giovane ristoratore ottiene dagli organizzatori una foto di tutte le bottiglie degustate. Se le procura tutte e inizia a bere alla ricerca di quel vino che tanto lo aveva colpito. E lo trova. E’ il Verdugo della cantina Masiero. Una produzione limitatissima, duemila bottiglie, a base di Merlot. Arrivano prima le bottiglie e poi l’incontro col produttore e poi, ancora, gli scambi di visite.
 
Da ultimo Franco Masiero, con l’appassionata moglie e la gioviale bacchica figlia, è “sceso” a Cusano Mutri qualche settimana fa, portando i suoi vini, offrendoli a chiunque entrasse nel Millenium Pub, come si fosse tra amici.
 
Una storia di uomini inviati da divinità non può essere solo terrena. È prodigiosa, infatti, la travolgente umanità che promana dai due, che rinsalda amicizie e unisce sconosciuti, che tiene insieme esperienze lontane nello spazio. Uno tsunami di benignità. E di bontà.
 
“Il vino prima deve essere buono, poi se è biodinamico è il top”, queste le parole di Masiero che ha iniziato a produrre vini con sistemi biodinamici venti anni fa, prima che diventasse moda. Una scelta per tutelare la terra del bosco vicino ai suoi vigneti. Su cinque ettari e uno straccetto di terreno produce oggi ventimila bottiglie. C’è un’idea di vita nei suoi vini, lo sforzo di una ricerca di armonia tra l’uomo, la sua passione e l’ambiente in cui vive. Armonia e ricerca che si ritrovano in ciascuno dei suoi vini. Lazaro, per iniziare, da uve Garganega, macera in parte in cisterne di marmo di Carrara. Non è estrosità né marketing, è studio: il carbonato di calcio del marmo fa precipitare i radicali liberi e attraverso questa via è possibile sostanzialmente azzerare l’uso di anidride solforosa. Il vitigno impiegato per questo vino è un antico clone, ormai in disuso a favore di altre varietà più produttive. Il vino è orange, ma non ha alcun sentore di ossidazione, sprigionando aromi freschi e avvolgenti di frutta. In bocca è quasi masticabile e regala una piacevolezza lunga, sempre fruttata.
 
Verdugo era il soprannome del padre di Franco, è prodotto con uve Merlot allevate su terreni di sabbia vulcanica a 480 metri di altitudine. Tutta la morbidezza piaciona, tipica del vitigno, è irrorata dalla ricchezza del terreno, restituendo un vino di eccezionale complessità in cui si combattono piacevolmente frutta rossa matura e mineralità, calore e freschezza stesi con dolcezza da tannini docili. Una grande bevuta.
 
A Cusano Mutri qualcuno ha coniato l’hashtag #sempreamicidimasiero, stampato anche sulle t-shirt di prodi bevitori. Non basta probabilmente bere i vini, occorre seguire l’esempio di Civitillo e andare a visitare i vigneti e la cantina vicentina da cui origina tanta bontà.
 
Le pizze di Civitillo e i vini di Masiero tengono insieme l’Italia. L’Italia unita da Bacco e Cerere.
 
Millenium Pub
Via Orticelli, 56 -  Cusano Mutri
Tel. 0824 862014
 
 
Masiero Società Agricola
Via Chiarelli, 55 – Trissino
www.verdugo.it
 

Patafisica delle due correnti gastronomiche del nostro tempo
di Antonio Medici

Esistono attualmente nel mondo dell’enogastronomia due correnti parafilosofiche, se non parapsicopatiche, inopportunamente trascurate e non stimate come tali. Un approccio patafisico, invece, consente di porle nel giusto rilievo.
La prima corrente, dopo quella elettrica che pure servirebbe per lumeggiare la cupa buaggine, va definita del passatismo romantico-gastronomico. Essa consiste nella stesura di un filtro retorico ocra sull’evocazione di pietanze dei tempi andati. Il color brunito richiama il materno e attraverso esso, in un gioco psicologico o psicopatologico, sensazioni di bontà, naturalezza salubrità, autenticità e qualsiasi altra cosa e bella e confortante quanto una tenera tetta materna. La summa degli artifici retorici usati per stendere l’ocra culmina nell’espressione “sapori antichi”, declinata anche all’anglosassone, con l’aggettivo prima del sostantivo, “antichi sapori”. Che cazzo siano i sapori antichi o gli antichi sapori non è noto? Che la mela del terzo millennio abbia aroma di zinco più intenso di quella degli anni cinquanta del secolo scorso? Chi può dirlo? Forse solo Martin McFly.
Il passatismo romantico-gastronomico non si può condannare in quanto necessario alle aziende per stare sul mercato. Per una sindrome patologica diffusa in tutti gli ambiti dell’umana esperienza italica contemporanea, i mangianti ignoranti percepiscono il moderno, l’innovazione e l’abilità tecnica dei cuochi come nemici del buono e dell’abbuffata. I mangianti ignoranti, dunque, necessitano di rassicurazioni. È per questo che esistono ritornelli stolti del tipo “tradizione e innovazione”, “innovazione nel solco della tradizione” e racconti su avi ispiratori della vocazione alla servitù dei fornelli.
La seconda corrente, orbene, emerge qui, in connessione alla prima. Si sviluppa ai piani più bassi della ristorazione, nelle pizzerie in particolare, ove in si concentra la sua espressione più potente che è quasi una devianza e che chiameremo della pizzeria formattata.
Il ristoratore pizzaiolo ricorre al Consulente per migliorare la propria offerta, per farsi conoscere e riconoscere. Il Consulente mette su un format, ossia un mix di menù, allestimento, architettura, illuminazione, comunicazione, immagine, apparizioni social, presenze nelle guide taroccate e nelle pompose quanto pezzottate classifiche dei blogger più influencer. Insomma il locale, ristorante o pizzeria che sia, viene azzerato per quel che è e ri-formato secondo il fomat elaborato dal Consulente.
Il problema è che il Consulente ha poca fantasia o, furbacchione, usa lo stesso format in ogni dove, apportando solo impercettibili variazioni, sicché si può dire esista una catena inconsapevole di pizzerie formattate, il cui patron occulto è il Consulente (figura generica e generale). Come si riconosce una pizzeria fomattata? Facile, gli elementi chiave sono pochi e ben verificabili:
·         la pizzeria formattata è sempre identificata dal nome del pizzaiolo, presentato come se fosse una star del jet set internazionale, sicché il cliente avverta un brivido di soggezione nel varcare la soglia della porta. Entrare nella pizzeria di un Cosimo qualunque non restituisce esattamente la stessa adrenalina che valicare il portone della pizzeria Gotha di Augusto Ignoto pizzaiolo. “Ma chi è Augusto Ignoto? Beh, se è scritto nell’insegna deve essere uno bravo!”, dialoga tra sé il mangiante ignorante. Magari il pizzaiolo è bravo davvero, o magari, più spesso, è un ciuccio;
·         l’interno della pizzeria del Consulente è molto minimal, con prevalenza di toni chiari quando non di bianco manicomiale. Il minimal latteo è un po’ come la fantasia Burberry’s, vi si ricorre per nascondere col banale standardizzato il proprio gusto dozzinale. Il locale formattato, infatti, si presenta di eleganza squilibrata, posticcia. In genere suppellettili naif, di frequente posti nei pressi della cassa, rivelano l’intimo animo brutale dell’allestitore;
·         alle pareti della pizzeria formattata spiccano gli elementi chiave della corrente del passatismo romantico-gastronomico: fotografie nitide, stampate su forex, immortalano nebbie di farina, mani in enfatiche pose operose e sapienti, il pizzaiolo amorevolmente accanto a un familiare, preferibilmente la mamma o la moglie, e altre immagini retorico-ampollose. Il tutto in bianco e nero, salvo qualche pummarulella rossa e foglie di basilico verde brillante della prateria;
·         veniamo ai menù. Il Consulente, innanzitutto, porta igiene, di questo gli va dato atto. Nelle pizzerie formattate non troviamo più gualciti fogli plastificati su cui milioni di impronte unte, sovrapposte, che anche i fenomenali agenti della scientifica di CSI impazzirebbero a vederle, ostacolavano, a chiunque non avesse lo strapotere della vista di una lince, la corretta lettura della lista di pizze disponibili. I menù oggi sono opuscoli più curati di quelli offerti alla Scala agli spettatori dell’opera;
·         In realtà più che di opuscoli si dovrebbe parlare di libretti che raccolgono per capitoli dalle trenta alle cinquanta varietà di pizze: dalla margherita in poi è un’escalation di imbarazzante creatività ripetitiva. Broccoli e salsicce o crema di broccoli e salsicce? Broccolo friariello o broccolo aprilatico? Le quattro stagioni si sono moltiplicate e sono diventate quarantaquattro. La capricciosa, che un tempo esprimeva il massimo della fantasia, ora è una pizza per lo svezzamento dei lattanti. La confusione aumenta via via che si scorre la lunga teoria di fantasmagorici titoli di pizza. Alla fine, rimbambiti, si finisce per scegliere a caso;
·         Dulcis in fundo, immancabile giunge il bicchierino o il boccaccetto. Per un ardire ignoto, in ciascun locale della inconsapevole catena delle pizzerie formattate il dolce è sempre servito nel barattolino di vetro. Epiche lotte, cucchiaino in resta, per raschiare le creme nelle piegature del vetro. Basta, per favore, schiaffate i dolci nei piatti!
Cari Consulenti, per favore, apportate qualche modifica incisiva ai vostri format, siamo ammorbati dalle immutabili scenografie; osate e fatela finita col passatismo.




Quel film imperdibile del Chianti Riserva di Fizzano
di Antonio Medici

 
Una meravigliosa rosa, una mammola decadente, una casa barocca, un tavolino con un drappo di velluto damascato rosso e tanti ninnoli con fiori secchi, la luce brillante e densa dell’arte di Carmelo Bene. Le immagini evocate dal sorso si susseguono, sono declamate, il contesto reale dell’enoteca si scioglie in un onirico, una suggestione senza dimensione, oltre il tangibile, coinvolge il cronista e la brava, oltre che bella, Alessandra (ricercatrice del gruppo del professor Moio).
 
Non è ebbrezza, è la magia del Chianti Classico Riserva di Fizzano Gran Selezione, Rocca delle Macie, 2013 (95% Sangiovese, 5% Merlot).
 
Una scelta casuale e complicata, aprire un’altra bottiglia dopo un grande Gattinara (Antoniolo San Franceso 2011, per la cronaca). Barolo, Riesling, Borgogna o una spericolata virata verso sud, verso un’opposta filosofia e opposti vitigni? Una sfida al nostro stesso gusto, se non animo, raramente gratificato dai vini toscani.
 
Così, casualmente, forse per influsso dell’inconscia passione cinematografica, la manina fatata afferra la bottiglia degli eredi del produttore cinematografico Italo Zingarelli, fondatore della cantina Rocca delle Macie.
 
Si dice che i vini siano espressione dei produttori e questo strepitoso Chianti è un vino che contiene un’intera pellicola cinematografica. Inusitatamente via via che si annusa, che si assaggia e che si ingoia non viene alla mente, come automaticamente sempre accade, la sequenza meccanica e standardizzata delle parole delle schede tecniche, quelle dei sommelier, insomma.
 
Questo vino sarebbe violentato dalle metafore banali dell’abbastanza questo e abbastanza quell’altro, dall’equilibrio e dall’armonia. Questo vino fa accedere ad un empireo popolato di immagini emotive, scardina pezzi di ricordi, simboli di sentimenti e di pensieri, e li riproduce innanzi agli occhi.
 
Riserva di Fizzano è prodotto in una splendida tenuta tra Siena e Firenze, nel cuore dell’area del Chianti Classico. Denominazione importante ma al contempo irrilevante nella fattispecie, giacché il rosso nettare, versato dalla bottiglia con la elegante etichetta bianca e la geometria delle particelle in nero a rilievo, è un assoluto anzi non è una bottiglia di vino.
 
Viene in mente l’opera surrealista di Magritte “il tradimento delle immagini” in cui è rappresentata una pipa con sotto una didascalia che recita “ceci n’est pas une pipe” (questa non è una pipa).
 
A dispetto del tangibile, dell’immagine, della forma e del contenuto il Riserva di Fizzano non è un vino, è un film, imperdibile, tra l’altro, e chi lo ha pensato e realizzato è un artista.
 
Riserva di Fizzano
Chianti Classico Gran Selezione
Rocca delle Macie
In enoteca a € 27
 



Se il dolce è un “percorso” che ti fa perdere il treno
di Antonio Medici

In via Vittorio Emanuele, a Napoli, in un prestigioso edificio ottimamente riallestito, affacciato su piazza Municipio, difronte alla Stazione Marittima, ma solo in linea d’aria, il pastificio Di Martino propone la triplice offerta di store, street food e pasta bar sotto l’insegna Sea Front. Inganno atroce, giacché il mare è distante l’intera piazza e dalle vetrate del piano superiore, ove è collocata la cucina con il bel bancone ligneo per gli ospiti, ci si affaccia sulla ferraglia e sui blocchi di cemento del cantiere ultradecennale per la costruzione della stazione della linea metropolitana. Di sea front non c’è e non ci può essere null’altro che il vagheggiamento del passeggio dopo pasto.
Dal banchetto aperto sulla strada parte la intelligente sfida alla pizza, rievocando l’antica tradizione, più antica della pizza stessa, della devozione: un cestino di 125 grammi di spaghetti al pomodoro venduto al prezzo 5 euro. Idea geniale e molto gustosa.

Il pasta bar al piano superiore, in misteriosa antitesi con la popolarità del marchio, del prodotto, la pasta, e della stessa formula bancone è un puro ossequio al Patacracchismo, se così possiamo arbitrariamente definire quella funesta corrente in virtù della quale abili chef o produttori di delizie gastronomiche ammantano di futili pajette preparazioni che di straordinario hanno solo il prezzo.  
In un contesto molto preciso e formale, un ottimo maitre e una efficiente quanto delicata donna in livrea servono una dozzina di piatti di pasta, declinazioni di quattro temi: terra, mare, orto e grandi classici. Buone esecuzioni di buone intuizioni senza clamori, tra cui spiccano le fresine (troppo tiepide) con crostacei al mandarino.  

Una ventina di ospiti, comodamente seduti lungo il perimetro dei fuochi, cui lentamente officiano lindi chef, paiono onorati di poter aprir le fauci agli intingoli cucinati innanzi ai loro occhi.  
La magia del marketing e della comunicazione nell’era del gastrofighettismo rende possibile l’impensabile: essere disposti pagare fior di euro per inchinarsi e raggiungere il climax spirituale della devozione alla dea pasta.  Deve essere questa, piuttosto che la tradizione, l’origine vera e crudelmente irrisoria del nome del piatto clou dello Yard Front De Martino (ci sia permessa la correzione).  
Ve ne è conferma inconfutabile. “E' un percorso” dolcemente redarguisce, meravigliata come se si fosse richiesto di saltare una preghiera in una messa, la sacerdotessa in livrea alla richiesta di accelerare il servizio del dolce, stante la necessità di dover ripartire a breve.  
Increscioso e angoscioso interrogativo incrina il fervore mistico del cronista ateo che, intanto, si intratteneva in amabile ma devota discussione con la bella vicina di bancone: abbandonarsi al fideistico percorso pastafariano verso il dolce o abbandonare lo sgabello e lanciarsi sul percorso verso il convoglio destinato a riportarlo tra le blasfeme mura di casa?

L‘angoscia monta quando lo chef-officiante, ricevuta la sollecitazione dalla celestiale assistente, manifesta platealmente il suo fastidio. Pare dire: chi son questi infedeli che vorrebbero alterare i ritmi del rito, che prevede, guarda caso, prima della pur squisita pastiera, un nido di devozione avvolto ai rebbi di una forchetta ben allusivamente dorata?  
Al debole e goloso cronista non resta che la conversione sulla via della pastiera, il che lo salva dall’ira deifica e giustamente lo sottopone alla penitenza del portafoglio e della diligenza che, blasfema anch’essa, non attende i tempi del compimento del “percorso”.  


Blog di critica, storia e letteratura di Giancristiano Desiderio.
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