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La filosofia al tempo del coronavirus

giancristiano desiderio
Pubblicato da in Povera e nuda · 17 Marzo 2020
Tags: epidemiacoronavirusContegoverno

di Giancristiano Desiderio

La filosofia è una di quelle attività umane a cui non è riconosciuta alcuna utilità pratica. A maggior ragione in momenti come questi: a cosa mai potrebbe servire la filosofia nel bel mezzo di un’epidemia che miete centinaia di vittime al giorno? A nulla. Aristotele ripeteva, con gusto dello scandalo, che chi sa fa e chi non sa insegna. Me ne son ricordato e così quando mi hanno proposto di far lezioni di filosofia – registrare qualcosa, fare dei video – mi son mostrato ironico se non scettico. A che serve ora mettersi a far lezioni sull’eidos in Platone o sul Cogito di Cartesio o sull’Io penso di Kant? Si rischia solo di far la figura dei pedanti o, peggio, degli scocciatori: le persone hanno già tanti problemi per angustiarle con questioni di tale natura che così, in astratto, anzi appese come i caciocavalli di Labriola, non hanno senso alcuno. Tuttavia, ancora Aristotele, forse per difendere la “categoria”, avvertiva che l’utilità della filosofia non consiste nella sua non-inutilità ma nella sua necessità. Infatti, se mettiamo da parte le speculazioni terribilmente astratte e metafisiche e scolastiche e ci riportiamo ad un senso terreno, terrestre, tellurico della filosofia scopriamo che pensare significa alzare il velo dalla condizione umana per mostrarla nella sua ineliminabile tragicità. Così la filosofia ci dice qualcosa di decisivo su ciò che effettivamente ci interessa: il governo della vita. Fin dove è possibile governare la vita?

Se la filosofia ha da dire qualcosa deve dirla proprio in momenti critici come questi. Altrimenti, taccia per sempre. La filosofia al tempo del Coronavirus ha un’occasione: mostrare la sua vitalità e la sua utilità parlando con chiarezza mentre tutte le altre attività umane - la sociologia, ad esempio, l’economia, ma anche la stessa scienza - mostrano la corda. Il mondo che sta là fuori è pericoloso, minaccioso, mortale. Ma fino a quando durerà la sicurezza che c’è qua dentro senza affrontare la minaccia che c’è là fuori? La filosofia ha qualcosa da dire in proposito o anch’essa se ne sta nel chiuso di un appartamento - appartata - aspettando che la bufera passi per poi rimettersi tronfiamente in cattedra?

Le nostre società ci fanno condurre una vita comoda ma la vita comoda è fragile. Siamo sedotti dal benessere e indotti a credere che le nostre società siano dei prodotti della natura. La realtà è molto diversa: le società sono creature storiche che come nascono e vivono così possono decadere e morire per i più diversi motivi. La storia è una continua rassegna di civiltà andate in rovina.

La nostra civiltà occidentale, poi, tra le tante altre ha una particolarità: ha realizzato il più alto grado di libertà per tutti. Proprio così: per tutti. Non per alcuni sì e altri no. Per tutti, se siamo disposti a essere onesti con noi stessi e riconoscere che la libertà è il nostro stesso modo di affrontare la tragicità dell’esistenza. Anche la libertà, però, non è esente dalla decadenza e come si afferma e si conquista così può essere negata e perduta. La libertà è sempre, lo si voglia o no, lotta per la libertà perché il tragico dell’esistenza non si fa mettere tra parentesi, non si fa superare da un potere superiore o da una forma di conoscenza conclusiva ed è sempre costantemente presente, anche quando sembra che sia assente. L’uomo è un essere tragico. Sempre.

La tragicità della vita significa proprio questo: non solo è impossibile che la vita e la società siano immuni dal male ma la stessa vita libera, quella in cui ci muoviamo, lavoriamo, amiamo, progettiamo, riposiamo, dipende proprio dalla nostra lotta con il male e dalla consapevolezza che nessuno – né un Uomo, né uno Stato, né un Partito, né una Chiesa, né un Sapere – ha la possibilità di convertire una volta e per sempre il male in bene. Se ciò accadesse la vita finirebbe, noi usciremmo di senno e dalla nostra pelle fino ad essere calati anzitempo in una cassa di castagno. L’epidemia da Covid-19 ci mostra questa realtà in modo crudo: il male è così contagioso che non è esterno a noi ma è in noi stessi. Anzi, noi siamo il male che ci sforziamo di tradurre in bene. Il male è parte costituiva della realtà viva che proprio perché viva, selvatica e fiera, cruda e verde, ha in sé il male, il virus, ma anche il bene, altrettanto virale.

Dunque, cosa dobbiamo fare? Uscire e affrontare il pericolo a petto nudo perché tanto la vita non ci dà scampo? Naturalmente, no (anche se, è il caso di evidenziarlo, c’è chi lo fa al posto nostro). Ma se siamo più consapevoli della insuperabile dimensione tragica della condizione umana, allora, capiremo che la situazione d’emergenza nella quale siamo non è l’eccezione ma la regola della nostra vita, sia pure in uno stadio estremo. Tuttavia, a questo stadio estremo possiamo non aggiungere panico sociale e irrazionalità politica se rinunciamo all’illusione della immunizzazione della vita e della sicurezza totale. Nessuno, neppure un Dio, è in grado di darci questa realtà che è solo il frutto del nostro umano, troppo umano, umanissimo attaccamento al piacere della vita. Se neppure un Dio ci può salvare, figurarsi se ci può salvare uno Stato. Una volta questo scambio tra la illusoria salvezza del corpo e la certa dannazione dell’anima si sarebbe chiamato peccato di simonia.

Eppure, nelle nostre società del benessere, che abbiamo creato con sforzo, fatica, lavoro, ingegno, tutto ruota intorno alla sicurezza e alla salvezza, in particolare statale, in modo ossessivo e quando questa sicurezza inevitabilmente viene meno cerchiamo subito il responsabile, anzi il colpevole e parte così la caccia all’uomo e agli uomini per fargli espiare colpe che, invece, sono nostre. “Al mio via scatenate l’inferno”: e l’inferno davvero si scatena. Il benessere che diventa valore unico si trasforma in malessere. L’ossessione della sicurezza è terribilmente ambigua e contraddittoria perché trasformando una utilità relativa in un bene assoluto si ottiene il risultato opposto: l’insicurezza. Oggi non ci sentiamo tutti insicuri?

Cosa ci dice allora la filosofia al tempo del coronavirus? Che ogni potere umano, compreso il potere della conoscenza, è sempre limitato ed è possibile esercitarlo solo se è limitato accettando la condizione tragica della nostra esistenza in cui il male è parte della vita. Questa realtà - la parola realtà significa: l’insieme delle cose che sono - non si lascia sospendere, non si lascia mettere tra parentesi, non si lascia immunizzare, non si lascia governare in modo totale. Si lascia controllare solo in modo relativo e il resto – ossia la nostra esistenza, la storia, le passioni, le malattie – è affidato al lavoro che ognuno di noi compie su di sé lavorando la propria vita. E così ognuno di noi dà il proprio contributo alla sua comunità. Proprio comunità è oggi una parola che si sente ripetere spesso, come se vi fosse un valore della comunità superiore al valore dei singoli. Ma comunità non significa totalità o tribù o popolo organico ma più comunemente ciò che ci accomuna e ciò che ci accomuna è la morte. Comunità vuol dire non essere immuni dinanzi alla morte. E nient’altro.

Non è mio stile fare l’heideggeriano di provincia, ma se la formula ultima del pensiero di Heidegger - “l’uomo non è il padrone dell’ente ma è il pastore dell’essere” - vuol dire qualcosa, ebbene, vuol dire che noi non siamo interamente padroni di noi stessi ma, soprattutto, significa che possiamo essere relativamente sovrani e liberi se siamo persuasi che in modo totale non possiamo governare nulla. Il governo della vita è accettabile se non è assoluto. La vita degna di essere vissuta è una conseguenza dell’assenza di onniscienza e di onnipotenza. Ecco perché la scelta che in Italia è stata fatta di mettere al primo posto la salute - “il diritto alla salute è un diritto primario” ha detto il capo del governo - e in secondo piano il lavoro non è sostenibile fino in fondo. Anche la salute, soprattutto la salute modernamente intesa, dipende dal modo in cui noi, sia come singoli sia come società, siamo in grado di lavorare la vita e alimentarla.

Arriverà un momento in cui il lavoro e il lavoro della vita si riprenderanno ciò che è loro. Forse, a quel punto l’epidemia avrà fatto un passo indietro o forse no, non lo so. Ciò che so è che la vita, ormai non più sicura nella sua sicura stanza, farà un passo avanti. Nel momento della verità speriamo d’avere la forza intellettuale e morale necessaria per conservarci uomini liberi.



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