di Giancristiano Desiderio
Una volta Amerigo Ciervo
mi ha raccontato di aver chiesto a Roberto De Simone di svolgere un lavoro di
ricerca sulla cultura popolare in provincia come il maestro lo aveva svolto sulla
cultura napoletana. Di fronte al suo diniego – “non c’è nulla da scoprire” –
Amerigo, insieme con il fratello Marcello e la loro creatura prediletta, i
Musicalia, si trovò dinanzi al dilemma: lasciar perdere o far da sé? Scelse la
seconda strada avendo così la conferma non solo che chi fa da sé fa per tre,
come recita il detto, non a caso, popolare, ma che la stessa conoscenza è un
dramma mentale non delegabile in cui si vince o si soccombe da soli.
Gli “amori” che mi
dividono da Amerigo Ciervo non sono pochi ma sono di più le “passioni” che ci
uniscono, oltre a un sentimento di amicizia che, a conti fatti, mi sembra a
volte più importante e decisivo della stessa verità se è vero che per la
cultura platonica non è possibile filosofia senza amicizia. Gli “amori” che
dividono sono l’antifascismo militante, l’illusione comunista, la scuola
statale: il primo è non solo insufficiente ma anche un ostacolo per dar vita a
una democrazia compiuta che necessita sia dell’antifascismo sia dell’anticomunismo;
il secondo è un amore più di gioventù che della maturità con la quale si scopre
la saggezza del padre Corrado Ciervo che da buon cristiano più che da
democristiano vedeva con amore e con ironia la fede rivoluzionaria dei figli; il
terzo è una contraddizione in termini che non piaceva nemmeno a don Milani, che
piace ad Amerigo, e va riformata non con la critica al neoliberismo che nella
scuola più ministeriale che ci sia al mondo potrebbe essere solo un maldestro
mezzo amministrativo, ma sostituendo gli esami di licenza con gli esami di
ammissione e dislocando l’esame di Stato nella sua giusta dimensione extra-scolastica
con gli esami di abilitazione per le professioni e gli uffici.
Gli “amori” che uniscono sono
l’amicizia, l’umanesimo, la cultura, il calcio, la canzone di Zeza, Pulcinella
e chissà quant’altro perché, come dice Shakespeare nell’Amleto, ci sono
più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia. Si
confrontino i primi con i secondi “amori” e si vedrà che i primi hanno un
orgoglio e una boria dei dotti che, invece, i secondi o gli amori di secondo
grado non hanno perché sono “amori” più veri, più esperti, più maturi, ironici
e comprensivi e, forse, insieme paterni e filiali e, quindi, completi e
duraturi com’è l’amore per il padre e per il figlio è completo e duraturo.
Nel suo libro Storie
del tempo liberato. Scritti sparsi sulla scuola e altri amori Amerigo mi
dedica non poche pagine e, in particolare, legge il mio testo La verità,
forse accostandolo a Gesù Cristo e il Cristianesimo di Piero Martinetti.
Il filosofo di testi come L’amore e La libertà non giurò, come
professore, fedeltà al fascismo per, come scrisse nella sua lettera a
Mussolini, non commettere “sacrilegio”. Se oggi, che nell’aria si sente un
certo servilismo, si esigesse un giuramento, non commetterei sacrilegio perché
è proprio sacrilego mischiare le cose sacre con le cose profane e sottoporre il
valore della coscienza e del pensiero alla forza di un istituto che non sia a
sua volta fondato sulla libertà e il limite del suo umano potere.
Martinetti, è bene sottolinearlo, non giurò non solo in opposizione al fascismo
ma perché avversava, con la testa e con il petto, ogni forma di totalitarismo
che, purtroppo, nel Novecento ha preso varie forme politiche che hanno in
comune il tradimento che gli intellettuali fecero commettendo il sacrilegio di
militarizzare lo spirito e mettere la verità al servizio di uno Stato o di un
Partito o delle altre maschere con cui il diavolo si traveste per assumere le
fattezze di Dio.
E qual è il compito,
primo e ultimo, della filosofia se non quello di far cadere le maschere? E’ il
motivo che fa dire ad Amerigo: “Pulcinella è il santo patrono della filosofia”.
Allora, caro Amerigo, sarà un caso o, forse, solo il senso delle cose più vere
come gli “amori” più esperti, ma nel secondo volume della mia biografia di
Croce ora pubblicato dedico un capitolo proprio a “Pulcinella. La filosofia e
la maschera”. Perché, a volte, per far cadere le maschere bisogna indossarne
una per svolgere quell’esercizio socraticamente ironico il cui fine è mostrare
che tutti i poteri umani, compreso il potere della verità giudicatrice, vivono
sotto un velo di ignoranza e possono essere buoni solo se ricondotti negli
argini che consentono all’umanità di amare e di errare e di pensare per vivere
secondo libertà.