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Ricordo del mattatore Paolo Isotta

giancristiano desiderio
Pubblicato da in Povera e nuda · 13 Febbraio 2021
Tags: PaoloIsottamortemusicacritica

di Giancristiano Desiderio

Chi era Paolo Isotta? Il critico musicale del nostro tempo che ha rivalutato il Novecento musicale italiano in cui vedeva primeggiare i Dioscuri, come li definiva, Franco Alfano e Gino Marinuzzi, mentre quando si faceva avanti sulla scena Ottorino Respighi lo chiamava “il terzo moschettiere”. Ma perché soffermarsi ora, ora che è morto, sull’opera di Paolo Isotta? Ci sarà tempo e chi verrà avrà da scorrere i suoi articoli per il Giornale di Montanelli e i suoi elzeviri per il Corriere della Sera ed i suoi saggi su Rossini e Wagner, Handel e Renata Tebaldi per storicizzare sia il professore che insegnava al Conservatorio di San Pietro a Majella, sia il critico musicale che si sentiva di essere secondo solo al grande Guido Pannain che considerava “il più geniale musicologo del Novecento” (forse, anche per far dispetto a Piero Buscaroli). A noi oggi, a me, spetta ricordare l’uomo, l’amico, il signore napoletano che era e che amava la vita con un senso, insieme, che sapeva di Apollo e di Dioniso e sapeva di doverla amare e prendere a morsi per darle una forma e un ritmo musicale prima che la vita prendesse a morsi lui e lo travolgesse.

Questa cosa è tanto curiosa quanto vera: Paolo, Paolino come lo chiamavano gli amici, era famoso pur non mettendo mai piede in televisione. L’ho conosciuto prima come critico e poi di persona. Dalla sua casa sul tetto di Napoli si vede il mare e allungando la mano sembra di toccare Capri. “Giancristiano”, mi diceva, “il tuo libro su don Benedetto fa schiattare di invidia il povero Nicolini che si arravota nella tomba”. Io mi schermivo e cambiavo discorso cercando di star dietro alle sue citazioni di Manzoni o di Giovan Battista Marino o, in latino, del suo amato Virgilio. Quella mattina di giugno, con un sole che entrava dalle grandi vetrate che danno sulla terrazza e sul Golfo, mangiammo prima degli ottimi spaghetti alle vongole e poi delle saporitissime alici indorate e fritte che la gentile cameriera, che Paolo chiamava con il campanello come un chierichetto che scampanella sull’altare, facendo avanti e indietro dalla cucina ci riversava nel piatto in abbondanza. Come mordeva la vita così mangiava e beveva la felice Falanghina, mentre Ciampa, il cagnolino, a dir la verità scassava le palle.

Paolo Isotta ha avuto una vita felice e piena, anzi – come dice lui stesso con una giusta avversativa nelle sue memorie La virtù dell’elefante – “una vita straordinariamente felice ma anche piena”. Gli piaceva stare in compagnia e fare il capobanda. Una sera a Benevento, alla trattoria da Nunzia, eravamo una decina e più o meno tutti mezzo ubriachi. La signora Nunzia è abituata, con insieme piglio e gentilezza, ad essere la padrona di casa, ma quella sera non ci fu verso: doveva comandare, anzi, “dirigere” Paolo e così la locandiera, dopo aver rischiato prima uno scontro fisico col maestro, capì che doveva cedere il passo e Isotta, che disse peste e corna di Antonio Pappano, fece il mattatore fino a notte fonda, come se fosse stato ispirato insieme dal suo amato Schonberg e Pulcinella.



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