di Giancristiano Desiderio
Martin Heidegger si chiedeva cosa significa pensare
ma, pur differenziando il pensiero dalla scienza e dal calcolo, non dava una
risposta. Martin pensatore, come lo chiamava con affetto e con ironia il
fratello Friz - il vero filosofo di
famiglia - prendeva le distanze anche
dalla stessa tradizione razionale e critica della filosofia occidentale che
identificava, un po’ troppo facilmente, con la metafisica dalla quale, a suo
dire, era necessario uscire per non permanere nell’oblio dell’essere. Ma se
tagliamo i ponti anche con la tradizione critica non sappiamo davvero più “cosa
significa pensare” e rimaniamo in balìa non solo di un essere che non
sappiamo perché, come e quando si manifesterà ma restiamo confusi anche, molto
più prosaicamente, dal conformismo e dalle molte chiacchiere di cui è fatta
gran parte della nostra vita. In fondo, la scelta più stupida che possiamo fare
è proprio liberarci del grande patrimonio umanistico della tradizione critica
della filosofia che è il dialogo che alimenta la nostra intelligenza e la
nostra anima.
Che cosa significa pensare? Pensare equivale a
giudicare e giudicare significa distinguere. La distinzione è non solo il
frutto del genio italiano ma anche il filo d’Arianna che si rende visibile nel grande
arabesco della storia della filosofia. L’identificazione delle cose, delle
azioni e delle idee può avvenire solo sulla base di una differenza in cui il
soggetto pensato è distinto da ciò che non è. Dei cinque generi sommi del Sofista
platonico - il dialogo dove si consuma
il parricidio di Platone nei riguardi del venerando e terribile padre Parmenide
- è proprio il Diverso ad essere
centrale perché pervadendo gli altri quattro ne rende possibile esistenza e
riconoscenza. L’atto della distinzione è già, lo si sappia o no, pensiero
storico perché è proprio nella storia che si può esprimere il pensiero come
facoltà del giudizio. L’attività distinguente è propria del giudizio che ha per
sua “materia” l’intuizione per cui se è lecito chiedersi “cosa significa
pensare”, è illecito chiedersi “quando s’inizia a pensare” giacché quando lo si
fa già si sta pensando perché si è già intuito. Il giudizio è proprio la
sintesi ben rotonda di forma e forma ossia della forma spirituale che si forma
su un’altra forma che, superata, funge in quel momento da materia. E’ questo il
movimento stesso della storia per cui il pensiero ha per sua materia l’intuizione
e l’intuizione si basa sulla passione, mentre la vita etica nasce sulla fame o
sulla cupiditas e la vitalità afferra di volta in volta nella
molteplicità dei desideri e dei sentimenti e delle cupiditates ciò che
vuole per affermarsi e uscire dall’indistinto e dal moto ondoso dei sentimenti
sempre oscillanti.
Immaginare un essere immobile come un Dio solitario,
imbattibile nella sua solitudine intangibile e senza pena, è appunto immaginare
mentre pensare equivale proprio a smuovere l’immobilità dell’essere fisso e in
pantofole e riconoscere che si può pensare ossia giudicare proprio perché l’essere
non è né uno né molti ma uno-molti ossia differenziato. L’esigenza di
salvaguardare l’essere trasportandolo in un mondo sopra il mondo o in una
storia sopra la storia nasceva dalla confusione tra pensiero e matematica o
pensiero e astratto o pensiero ed empiria, ma una volta conquistata proprio la
differenza tra i diversi atti spirituali e mostrato che pensare non è né
calcolare né generalizzare ma distinguere, allora, non serve più rifugiarsi
sotto la barba di un Dio ascoso e monastico. Se il pensiero è storia, allora,
le categorie del pensiero sono gli stessi atti vitali della nostra esperienza
che si lasciano predicare cioè pensare concettualmente anche se - e proprio perché - non sono concetti ma, come dice la felice
espressione di Croce, potenze del fare.
Il pensiero distinguente o giudizio storico è la medesima
dottrina delle categorie che lo stesso Croce distingueva con un eccesso di zelo
nel timore di cadere in una nuova forma di teologia panlogistica o di mistico
idealismo attuale alla maniera di Gentile e della sua scuola. Ma se al di là
della Logica ci fosse per davvero una Dottrina delle categorie, allora, ci
troveremmo dinanzi ad una doppia logica o a una logica ulteriore, laddove
invece il pensiero nel suo esercizio di distinzione altro non fa che variare
contenuto o materia o categoria o predicato o esperienza e così è esso stesso
come pensiero della differenza, in cui il reale mostra il volto razionale, la
dottrina delle categorie.
Del resto, le varie tabelle delle categorie che si
succedono nella storia del pensiero hanno tutte un che di arbitrario: l’aristotelica
è una lista di predicati sparpagliati che lo stesso Aristotele non giustifica e
usa alla buona; quella kantiana mette un po’ tutto insieme e paga il prezzo della
indebita identificazione che Kant fa tra conoscenza e scienza fisico-naturale
del tempo; quella hegeliana ci fa assistere alla nascita storica delle
categorie che, confondendo e alternando pensiero ed empiria, corrono tutte ad
affogarsi e suicidarsi in un sapere definitivo finale con cui Hegel celebra più
se stesso che la verità del suo pensiero.
La verità è che una dottrina delle categorie intesa
come mappa dell’essere - una sorta di codice
genetico del pensiero - non ha senso se il
pensiero è inteso come pensiero storico e, dunque, esercita la sua funzione
rivelativa tramite il giudizio del concetto in cui il soggetto è qualificato negando
il suo contrario o ciò che tende a confonderlo. Qui il pensiero distinguendo la
stessa alterità del reale - ossia delle
cose che sono - categorizza cioè dice
le cose e introdurre l’idea di dedurre le categorie equivale a spezzare il
circolo di pensiero e prassi che è la stessa eterna relazione della vita che ci
esalta e ci umilia, ci consola e ci avvilisce, ci fa gioire e ci divora. Il
legame tra le categorie, ossia la relazione che la vita umana intrattiene con sé
stessa, è, come mi insegna Croce, l’eterno loro implicarsi l’una nell’altra e
ognuna, di volta in volta, salendo e scendendo, superando e cadendo,
progredendo e regredendo, creando e annullando, è al primo posto e nel circolo
eterno, come la Beatrice del Paradiso che sorride e riguarda e si volge
alla “eterna fontana”.
La dottrina delle categorie, dunque, è morte e
resurrezione del pensiero. Non va intesa come un elenco o una deduzione bensì
come la natura storiografica o ermeneutica del pensiero che rivela la
dimensione dialettica della nostra condizione in cui i predicati del giudizio
sono le stesse potenze del fare della nostra storia che con piacere e con
dolore ci mettono al mondo e ci tolgono dal mondo. Siamo sempre nell’occhio di
una Tempesta perché proprio il pensiero ci mostra che lui stesso non è un
rifugio dai mali della vita in un’altra vita vera e pura e incontaminata ma il
loro stesso spettacolo che guardato e capito ci pulisce e ci innalza per
continuare la vita tempestosa fino a che ne avremo forza e desiderio.