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Sulla dottrina delle categorie

giancristiano desiderio
Pubblicato da in Povera e nuda · 16 Giugno 2019
Tags: HeideggerCroceAristoteleHegelKantdottrinadellecategoriePlatone

di Giancristiano Desiderio

Martin Heidegger si chiedeva cosa significa pensare ma, pur differenziando il pensiero dalla scienza e dal calcolo, non dava una risposta. Martin pensatore, come lo chiamava con affetto e con ironia il fratello Friz  - il vero filosofo di famiglia -  prendeva le distanze anche dalla stessa tradizione razionale e critica della filosofia occidentale che identificava, un po’ troppo facilmente, con la metafisica dalla quale, a suo dire, era necessario uscire per non permanere nell’oblio dell’essere. Ma se tagliamo i ponti anche con la tradizione critica non sappiamo davvero più “cosa significa pensare” e rimaniamo in balìa non solo di un essere che non sappiamo perché, come e quando si manifesterà ma restiamo confusi anche, molto più prosaicamente, dal conformismo e dalle molte chiacchiere di cui è fatta gran parte della nostra vita. In fondo, la scelta più stupida che possiamo fare è proprio liberarci del grande patrimonio umanistico della tradizione critica della filosofia che è il dialogo che alimenta la nostra intelligenza e la nostra anima.

Che cosa significa pensare? Pensare equivale a giudicare e giudicare significa distinguere. La distinzione è non solo il frutto del genio italiano ma anche il filo d’Arianna che si rende visibile nel grande arabesco della storia della filosofia. L’identificazione delle cose, delle azioni e delle idee può avvenire solo sulla base di una differenza in cui il soggetto pensato è distinto da ciò che non è. Dei cinque generi sommi del Sofista platonico - il dialogo dove si consuma il parricidio di Platone nei riguardi del venerando e terribile padre Parmenide -  è proprio il Diverso ad essere centrale perché pervadendo gli altri quattro ne rende possibile esistenza e riconoscenza. L’atto della distinzione è già, lo si sappia o no, pensiero storico perché è proprio nella storia che si può esprimere il pensiero come facoltà del giudizio. L’attività distinguente è propria del giudizio che ha per sua “materia” l’intuizione per cui se è lecito chiedersi “cosa significa pensare”, è illecito chiedersi “quando s’inizia a pensare” giacché quando lo si fa già si sta pensando perché si è già intuito. Il giudizio è proprio la sintesi ben rotonda di forma e forma ossia della forma spirituale che si forma su un’altra forma che, superata, funge in quel momento da materia. E’ questo il movimento stesso della storia per cui il pensiero ha per sua materia l’intuizione e l’intuizione si basa sulla passione, mentre la vita etica nasce sulla fame o sulla cupiditas e la vitalità afferra di volta in volta nella molteplicità dei desideri e dei sentimenti e delle cupiditates ciò che vuole per affermarsi e uscire dall’indistinto e dal moto ondoso dei sentimenti sempre oscillanti.

Immaginare un essere immobile come un Dio solitario, imbattibile nella sua solitudine intangibile e senza pena, è appunto immaginare mentre pensare equivale proprio a smuovere l’immobilità dell’essere fisso e in pantofole e riconoscere che si può pensare ossia giudicare proprio perché l’essere non è né uno né molti ma uno-molti ossia differenziato. L’esigenza di salvaguardare l’essere trasportandolo in un mondo sopra il mondo o in una storia sopra la storia nasceva dalla confusione tra pensiero e matematica o pensiero e astratto o pensiero ed empiria, ma una volta conquistata proprio la differenza tra i diversi atti spirituali e mostrato che pensare non è né calcolare né generalizzare ma distinguere, allora, non serve più rifugiarsi sotto la barba di un Dio ascoso e monastico. Se il pensiero è storia, allora, le categorie del pensiero sono gli stessi atti vitali della nostra esperienza che si lasciano predicare cioè pensare concettualmente anche se  - e proprio perché -  non sono concetti ma, come dice la felice espressione di Croce, potenze del fare.

Il pensiero distinguente o giudizio storico è la medesima dottrina delle categorie che lo stesso Croce distingueva con un eccesso di zelo nel timore di cadere in una nuova forma di teologia panlogistica o di mistico idealismo attuale alla maniera di Gentile e della sua scuola. Ma se al di là della Logica ci fosse per davvero una Dottrina delle categorie, allora, ci troveremmo dinanzi ad una doppia logica o a una logica ulteriore, laddove invece il pensiero nel suo esercizio di distinzione altro non fa che variare contenuto o materia o categoria o predicato o esperienza e così è esso stesso come pensiero della differenza, in cui il reale mostra il volto razionale, la dottrina delle categorie.

Del resto, le varie tabelle delle categorie che si succedono nella storia del pensiero hanno tutte un che di arbitrario: l’aristotelica è una lista di predicati sparpagliati che lo stesso Aristotele non giustifica e usa alla buona; quella kantiana mette un po’ tutto insieme e paga il prezzo della indebita identificazione che Kant fa tra conoscenza e scienza fisico-naturale del tempo; quella hegeliana ci fa assistere alla nascita storica delle categorie che, confondendo e alternando pensiero ed empiria, corrono tutte ad affogarsi e suicidarsi in un sapere definitivo finale con cui Hegel celebra più se stesso che la verità del suo pensiero.

La verità è che una dottrina delle categorie intesa come mappa dell’essere  - una sorta di codice genetico del pensiero -  non ha senso se il pensiero è inteso come pensiero storico e, dunque, esercita la sua funzione rivelativa tramite il giudizio del concetto in cui il soggetto è qualificato negando il suo contrario o ciò che tende a confonderlo. Qui il pensiero distinguendo la stessa alterità del reale  - ossia delle cose che sono -  categorizza cioè dice le cose e introdurre l’idea di dedurre le categorie equivale a spezzare il circolo di pensiero e prassi che è la stessa eterna relazione della vita che ci esalta e ci umilia, ci consola e ci avvilisce, ci fa gioire e ci divora. Il legame tra le categorie, ossia la relazione che la vita umana intrattiene con sé stessa, è, come mi insegna Croce, l’eterno loro implicarsi l’una nell’altra e ognuna, di volta in volta, salendo e scendendo, superando e cadendo, progredendo e regredendo, creando e annullando, è al primo posto e nel circolo eterno, come la Beatrice del Paradiso che sorride e riguarda e si volge alla “eterna fontana”.

La dottrina delle categorie, dunque, è morte e resurrezione del pensiero. Non va intesa come un elenco o una deduzione bensì come la natura storiografica o ermeneutica del pensiero che rivela la dimensione dialettica della nostra condizione in cui i predicati del giudizio sono le stesse potenze del fare della nostra storia che con piacere e con dolore ci mettono al mondo e ci tolgono dal mondo. Siamo sempre nell’occhio di una Tempesta perché proprio il pensiero ci mostra che lui stesso non è un rifugio dai mali della vita in un’altra vita vera e pura e incontaminata ma il loro stesso spettacolo che guardato e capito ci pulisce e ci innalza per continuare la vita tempestosa fino a che ne avremo forza e desiderio.



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