di Giancristiano Desiderio
La morte improvvisa di Francesco Durante mi ha stordito.
Leggevo uno degli splendidi racconti di Domenica Rea tratti da Spaccanapoli,
sono svenuto e precipitato nel sonno torbido della controra e quando mi sono
ridestato mi ha raggiunto come un fulmine d’agosto l’ingiusta notizia. E’ morto
lì dov’era nato, ad Anacapri, stamattina stroncato non so da che, da un’assurdità,
da un colpo, da un lampo, dal caso, dall’equilibro fragile della vita umana.
Aveva sessantasei anni e un grande futuro dietro le spalle, tanto che definirlo
giornalista è riduttivo. Ha fatto un po’ di tutto: il pubblicitario, il
traduttore, il dirigente editoriale, il professore di letterature comparate e
di questa sua versatilità resteranno senz’altro i due volumi di Italoamericana.
Storia e letteratura degli italiani negli Stati Uniti, la riscoperta dei
romanzi di John Fante e la valorizzazione editoriale delle opere di Domenico
Rea. Come vedete, tutto torna.
Nel 2008 Francesco Durante, che in quel momento era
caporedattore al Corriere del Mezzogiorno, pubblicò uno dei libri più
belli e più intelligenti e più vivi su Napoli e la crisi della monnezza,
anzi il miglior libro che sia stato scritto su quella vergogna e, come si legge
nelle prime righe, sulla “nostra invincibile cialtronaggine”: Scuorno,
appunto, vergogna è il titolo. Lo sfoglio con malinconia e mi accorgo che
contiene ancora il foglio con gli appunti che presi per presentarlo a Sant’Agata
dei Goti insieme con il suo e mio amico Ruggero Guarini. Venne con la moglie e
il cagnolino, un simpatico bassotto, e trascorremmo una bella serata fatta di
passeggiate santagatesi, viste in Biblioteca Melenzio e cena con ‘nfrennole
e Falaghina. Sul libro volle scrivere una bella dedica: “A Giancristiano,
lettore di squisita sensibilità e acuminata intelligenza, dal suo amico
Francesco”.
Mi trattenni con Francesco in una lunga conversazione
nella sua stanza al Corriere dalla quale si vedeva il mare. Non era molto
contento della sua condizione e voleva fare altro, ma è un po’ tipico dei
giornalisti di pensare di fare altro. Con la differenza, però, che Francesco
era proprio in grado di fare altro e di fare più cose con quella sua passionaccia
per la cultura e quel dono naturale che aveva nel riconoscere il talento. Di me
lo divertiva il fatto che ai suoi occhi ero uno strano incrocio di “locale” e “globale”
e che mi divertivo, come a volte ancora cerco di fare, a mettere insieme la
cultura locale con la cultura nazionale o con la cultura e basta. Una volta gli
dissi: “Scusa Francesco, poi quel mio pezzo non è uscito, magari non andava
bene”. Mi rispose secco: “No, questo non devi mai pensarlo. I pezzi vanno
benissimo. E’ che qui è un casino e succede di tutto”. Francesco, oltre ad
essere una persona perbene - e questa
definizione che sembra non significare nulla, invece, per lui è veritiera
- è stato un maestro di giornalismo e la
sua carriera nei giornali, da Nord a Sud, da Il Piccolo a Il Mattino
al Corriere, è ricca di aneddoti che lui sapeva raccontare con garbo,
ironia e divertimento. Perché il vero tratto che attraversa vita e opera in
Francesco Durante è la signorilità. Era per davvero un signore del giornalismo
e della cultura.
Ma il nome di Francesco Durante resterà non solo nel
giornalismo ma anche nella letteratura. La sua opera di cura per la
pubblicazione del Meridiano Mondadori dedicato a Domenico Rea è uno strumento fondamentale
per la conoscenza critica dell’opera del grande scrittore napoletano. Francesco
volle che a scrivere il saggio introduttivo fosse Ruggero Guarini che
soffermandosi sul concetto del “sentimento creaturale della vita” che era
proprio di Rea diede il meglio di sé per un autore, e un amico, quale fu Mimì
Rea per Ruggero Guarini, che sentiva a “pelle”. Del resto, fu proprio con
Francesco che Ruggero Guarini approdò al Corriere del Mezzogiorno con
quella sua bella rubrica intitolata prima “Fisimario napoletano” e poi
semplicemente “Fisimario” perché Ruggero aveva proprio delle fisime di cui si
liberava, forse, scrivendone. Una di queste era quella che si trova all’inizio
del capolavoro di Giambattista Basile in cui la vecchia si alza la veste e
mostra l’oscenità facendo ridere la principessa triste Zoza. Quella scena viene
ripresa da Francesco in Scuorno in modo mirabile raccontando di quanto
avvenne sotto i suoi occhi nei vicoli di Spaccanapoli con due ragazzine che si
prendevano gioco di un signore fermo in automobile. Alzandosi le gonne gli
dissero: “’U zi’, ‘a sapit’ a chest!?”. Magari quel signore divertito era
proprio lui.
Ciao Francesco, con affetto e gratitudine.