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Elogio di Cruyff e dell'Olanda

giancristiano desiderio
Pubblicato da in Povera e nuda · 18 Luglio 2020
Tags: OlandaCruyffcalcioItaliaConte

di Giancristiano Desiderio

Cruyff, finalmente! Sì, perché Cruyff l’ho sempre sentito come uno di famiglia, una sorta di fratello, fin da quando andai, bambino, al cinema con mio padre a vedere Il profeta del gol, il film-documentario del 1976 scritto e diretto da Sandro Ciotti. Si sa, la felicità è un padre e un figlio che giocano a pallone o che guardano insieme la partita di calcio dei loro campioni. Spero che mio figlio sarà felice quando ricorderà le partitelle di pallone che facevamo davanti alla chiesa di Santa Sofia di Benevento quando era bambino.

Johan Cruyff è stato uno dei più grandi giocatori della storia del gioco del calcio. Gianni Brera lo chiamò il Pelé bianco e la definizione non è per niente casuale. Cruyff e Pelé sono accomunati da più aspetti: come se Cruyff fosse Pelé bianco e Pelé fosse Cruyff nero. Se guardate i filmati delle loro partite potete osservare che entrambi hanno, come direbbe proprio Cruyff, “lo sguardo globale e il pensare in anticipo”. Hanno un modo di essere in campo che esprime visione e dominio della scena: le loro figure calcistiche spiccano sul terreno di gioco come il fuoco intorno al quale tutto gira, non solo la loro squadra ma perfino la squadra avversaria.

Sono entrambi eleganti, di un’eleganza naturale che discende direttamente dalla naturalezza con la quale danzano e dall’intimità che hanno con il pallone e con il calcio che giocano divertendosi. Entrambi possono ricoprire più ruoli e si trovano a loro agio in ogni zona del campo: Pelé era bravo anche in porta e Cruyff era il portiere di riserva dell’Ajax in Coppa dei Campioni. Sia l’uno sia l’altro fecero grande e celebre la propria squadra: l’Ajax e il Santos. Pelé giocò esclusivamente nel Santos mentre Cruyff giocò anche nel Barcellona (e nel Feyenoord) portando la squadra catalana subito a vincere il campionato dopo ben quattordici anni dall’ultima volta. Entrambi, Cruyff e Pelé cambiarono anche la storia delle rispettive squadre nazionali: con Pelé il Brasile fu portato alla vittoria per la prima volta nel 1958 e con Pelé vinse altri due Mondiali, nel 1962 e nel 1970; con Cruyff l’Olanda arrivò ai Mondiali nel 1974 e non vi partecipava dal lontano 1934 ma, soprattutto, l’Olanda di Cruyff e di Michels, di Kroll e di Keizer, di Neeskens e di Jansen diede spettacolo, tanto che i due Mondiali del 1974 e del 1978, anche se vinti dalla Germania e dall’Argentina, per tutti e per tutto sono i Mondiali della Grande Olanda.

Inoltre, per ultimo ma non ultimo, sia la Perla nera sia il Pelé bianco giocavano con il destro e con il sinistro ed erano forti di testa. Quando il grande Johan è morto a Barcellona il 24 marzo 2016, è stato proprio il grande Pelé – e giustamente – a rendergli omaggio: “E’ stato un grande giocatore e, come allenatore, ha lasciato un’eredità molto importante alla famiglia del calcio. Il nostro sport perde una persona che è stata un grande esempio per tutti”. Sì, proprio così, una grande eredità e una vera rivoluzione. Così è vero quanto hanno scritto Federico Buffa e Carlo Pizzigoni nella prefazione a La mia rivoluzione. L’autobiografia di Cruyff: “Ecco Johan Cruyff, l’unico che, rimanendo borghese, ha fatto la rivoluzione due volte, in campo e in panchina, come calciatore e come tecnico, con i piedi e con la testa”.

Cruyff era intellettualmente onesto e oltre a dire che “si raggiunge il vertice insieme ad altre persone, da soli è impossibile”, ha sempre riconosciuto i suoi debiti fino a dire: “Figure quali Henk Angel, Arend van der Wel, Jany van der Veen, Rinus Michels, Piet Keizer sono state tutte determinanti per la persona che sono diventato”. Tuttavia, conoscendo la vita e l’opera calcistica di Cruyff si capisce che il piccolo Johan aveva un appuntamento con il destino o almeno un appuntamento sul campo di calcio dell’Ajax al quale di fatto approdò fin da quando aveva 5 anni. Elémire Zolla diceva che tutto accade tra i 3 e i 5 anni e che poi tutto il resto della vita o è oblio o e reminiscenza. Beh, per Cruyff fu senz’altro reminiscenza. Naturalmente, non imparò a giocare a pallone in una scuola calcio ma: “A giocare a calcio ho imparato per strada”. E dove volete che un giocatore-nato possa imparare/ricordare come si gioca a calcio se non per strada? “Giocavamo a pallone ovunque ci fosse possibile” dirà lui stesso e con il pallone ci faceva letteralmente l’amore, tanto che se lo portava anche a scuola e se lo teneva sotto il banco passandoselo da un piede all’altro. Solo uno che con il pallone ci ha fatto l’amore fin da bambino poteva inventare quella cosa bella assai e meravigliosa che è passata alla storia come “Cruyff turn”.

La fece per la prima volta, forse, nella partita con la Svezia nel 1974: “Mentre mi sporgo in avanti, colpisco la palla facendola passare dietro il piede d’appoggio, per poi girarmi subito dopo e scattare verso la sfera, in direzione opposta alla precedente”. Insomma, una sorta di veronica. Una finta che non aveva mai provato in allenamento e che fece in modo del tutto spontaneo. La partita con gli svedesi finì 0 a 0 ma tutti parlavano di quella cosa strana e bellissima che aveva fatto Cruyff che non dimenticò mai che da ragazzino fu soprannominato “il ragazzo con il pallone”. Con la scuola chiuse presto appena capì che doveva apprendere direttamente da quel campo da gioco principale che è l’esperienza: “Non ho titoli di studio, tutto ciò che so l’ho appreso dall’esperienza”. Non c’è dubbio, è il mio fratello gemello, il terzo fratello.

Il numero 14 che portava sulle spalle è il segno del suo carattere di libertà. Ci sono almeno due versioni di questa storia. La prima è questa: il 30 ottobre 1970 l’Ajax gioca contro il PSV Eindhoven e il compagno di squadra con la maglia numero 7, Gerrie Muhren, non trova la sua maglietta e allora il capitano Cruyff gli cede la sua che porta il numero 9 e per sé prende la prima che gli capita a tiro delle magliette spaiate: la numero 14. La partita va bene, l’Ajax vince per 1 a 0 e Cruyff decide che i numeri delle maglie quelli sono e quelli resteranno. La maglia di Cruyff così rimarrà, un po’ per caso e un po’ per necessità e un po’ per ghiribizzo, la numero 14 nell’Ajax, in America quando l’olandese giocherà con i Los Angeles Aztecs e anche nella Nazionale dei tulipani. In Spagna con il Barcellona, invece, avrà nuovamente la maglia con il numero 9. La seconda versione, invece, vuole che Cruyff saltò qualche gara per infortunio e il suo posto fu preso proprio da Muhren; al rientro in campo Cruyff non riprese più la sua vecchia maglia numero 9 ma indossò la 14 che gli piacque così tanto che restò poi per sempre la sua maglia. Infatti, l’Ajax nel 2007 ritirò la maglia numero 14 che sarà di Johan Cruyff, il principe di Amsterdam, da qui all’eternità.

Dal primo all’ultimo giorno della vita, Johan Cruyff ha vissuto, giocato e pensato il calcio. Forse, è un caso più unico che raro. Molti giocatori, una volta appese le scarpette al chiodo - e Cruyff le appese troppo presto, all’età di trentun anni, così dovette riprenderle -, diventano allenatori. Ce ne sono alcuni che in questa veste di allenatori di corpi e di anime hanno dato contributi decisivi all’evoluzione del calcio. Ma Cruyff è un caso a parte. In lui la passione per il football diventa un modo di concepire la vita e ciò che gli interessa è proprio “l’idea di calcio”. Il suo sforzo da allenatore è stato tradurre in pensiero ciò che aveva fatto sul campo da gioco per poterlo nuovamente mettere in atto sui campi da calcio. Lo ha fatto sempre con semplicità e chiarezza, che sono qualità di chi possiede il concetto che esprime. La sua spiegazione del “calcio totale”, che è un gioco offensivo, è quanto mai elementare: per essere in grado di attaccare “bisogna difendere avanzando”. Quindi è giocoforza avere più linee possibili, in modo tale che quando si conquista la palla ci dovranno essere sempre un compagno avanti al portatore di palla e un compagno al suo fianco: “Lo spazio tra il portatore di palla e i due compagni non dovrebbe mai superare i dieci metri. Se la distanza è maggiore, il rischio di perdere palla aumenta”. Pensato in questo modo, il calcio diventa tecnica e posizione. Il giocatore deve saper fare la cosa giusta al momento giusto, ma per farlo deve anche trovarsi al posto giusto al momento giusto. La squadra che è capace di difendersi avanzando vedrà i suoi giocatori star stretti nella fase difensiva vera e propria per poi allargarsi leggermente nella fase di possesso palla e di attacco. Qui già ci sono il Milan di Sacchi e il Barcellona di Guardiola. Tuttavia, le strategie di gioco sono importanti ma non sono decisive. Ciò che è fondamentale è l’avversario. Qui Cruyff afferma quanto già detto da Arpad Weisz: “Sembrano nozioni basilari, ma purtroppo anche ai più alti livelli ci sono giocatori – e allenatori – che non si soffermano quasi mai su dettagli simili. Tutti si riempiono la bocca di stili di gioco e di tattica, ma nella maggior parte dei casi lo fanno in modo sbagliato. Prendete la formazione: per me non è questione di 4-3-3, 4-4-2 o 5-3-2, ma di adattarsi allo stile di gioco che ti consente di disinnescare la pericolosità degli avversari, trasformando il loro punto di forza in una debolezza”.

Ma dove Johan Cruyff dimostra di essere il maggior filosofo del Novecento è nel costante ritorno alle due regole fondamentali e dialettiche del Controllo & Abbandono. Per un buon giocatore di calcio la cosa più importante, secondo Cruyff, è saper padroneggiare la palla: “Il passaggio, lo stop di piede e di petto, l’ambidestrismo e il colpo di testa”. Per Cruyff stop e passaggio sono le due condizioni centrali, ineludibili, decisive del football. Nei suoi insegnamenti e allenamenti, nelle sue lezioni di calcio, il grande olandese insisteva nel “combinare” la “tecnica di base” con il “gioco di posizione”. La sua attenzione era rivolta ai bambini, “soprattutto ai bambini”, perché – e lo sapeva per esperienza personale – è quello il momento in cui il talento, se c’è, si manifesta e le cose si apprendono come una sorta di lingua o di madrelingua che deve essere espressa. Lo diceva anche il grande Arpad Weisz: “Il giuoco del calcio è come una lingua straniera, la si apprende bene quando si è piccoli perché l’istinto soccorre, ma colui che si dedica al giuoco oltre la puerizia, non saprà mai eliminare le tracce dell’artificiosità che viene impiegata per occultare le deficienze tecniche”. Il primo calcio ad un pallone, secondo l’allenatore ungherese, si dà tra i sei e i dieci anni. Cruyff all’età di cinque anni era già sul campo dell’Ajax.



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