di Giancristiano Desiderio
Giù a Reullo – abbasc’ Reull’ – lì dove
Sant’Agata dei Goti si confonde con la campagna e ritorna nella natura da cui
sorge come un fiero soldato a cavallo c’è l’antico lavatoio con le sue chiare,
fresche et dolci acque dove le donne un tempo lavavano e risciacquavano i panni
e la vita dolente. Non solo un lavoro, ma un rito con cui le comari, a volte
allegre a volte provate, lavavano i panni sporchi della famiglia e sospiravano
per un amore di gioventù. L’altro giorno, nella controra, quando per il caldo
cantano grilli e cicale e ci si chiude in casa dietro le persiane nella speranza
che passi un filo di vento, una compagnia di donne e uomini, ragazze e ragazzi
venuti chissà da dove, come i barbari delle provvidenziali invasioni, si è
calata nelle acque belle fredde del lavatoio settecentesco. Nelle fotografie,
che sono finite naturalmente sui social, si vedono le scene della bella
rinfrescata con le donne in bikini immerse nelle vasche e gli uomini seduti ai
bordi sui marmi consumati dal tempo, dall’acqua, dalle braccia, dalla pazienza,
dalle delusioni. Così è subito scattata la indignazione che, in verità, ha
riguardato più il mondo social che la società santagatese – esisterà
pure un animale del genere – e si sono sentiti alzare pistolotti, moralismi,
trombonismi. Tutti scandalizzati perché questa bella compagnia di forestieri ha
osato senza ritegno spogliarsi e buttarsi in acqua nell’antico lavatoio del
Settecento. Ha osato vivere, nientemeno.
A me la vitale immersione è piaciuta assai. Mi è
sembrato il modo migliore e più vitale per ridare senso alle acque del lavatoio
ormai orfane delle donne e dei loro sciacquamenti. Immagino che la compagnia si
sia imbattuta per caso nella bellezza, come spesso accade, e non abbia
resistito alla tentazione di bagnarsi e denudarsi all’ombra delle tegole, del
tufo e della lussureggiante vegetazione. Non molto lontano da lì c’è la
cosiddetta fonte di Peppe ‘o nir – così detto perché scuro scuro di
pelle come un nero – che la generazione del padre di chi scrive usava come
piscina. La fonte era usata, secoli addietro ma non troppo, pressappoco come il
lavatoio, per muovere con la violenta energia dell’acqua le pale della ruota del
mulino, ma una volta che la ruota della vita smise di girare per macinare,
allora, quelle acque, fredde come il ghiaccio sciolto, furono usate come una
piscina o meglio come una grande vasca in cui la gioventù si tuffava come nella
vita. Peppe ‘o nir, che per chi scrive si colora nella fantasia come uno
strano animale mitologico, una sorta di Minosse buono, si era inventato un
ingresso al costo di 100 lire e, oltre all’acqua rinfrescante e l’ombra delle
palme, garantiva anche una bella e saporita consumazione fatta di pane di casa,
melanzane e pomodori. Lì i giovani santagatesi, quelli della generazione degli
anni Sessanta che conoscevano il mondo mediato dal cinema e dal rock nostrano
fatto di imitazioni americane e di pane e olio mediterraneo, si buttavano in
acqua alla ricerca del fresco e ancor più dell’illusione della loro estate invincibile.
L’usanza di calarsi nelle acque fredde per il salutare
refrigerio è, dunque, antica a Sant’Agata. Nello stesso lavatoio un tempo i
ragazzini si buttavano con tutti i panni, quelli da lavare e quelli indosso, e
chi scrive si è più volte rinfrescato sia nella storia lì dalle parti del ponte
di Viggiano, sia sulla fontana detta di Pozzillo sopra Santa Croce, sia nella
fontana di Sant’Alfonso vivendo così il proprio paese con la stessa passione
che si brucia nella conoscenza per meglio apprezzarne il sapore e la bellezza
nei giorni dorati della bella stagione che si apre dolce come una susina dal
colore giallo-oro. I santagatesi – lo dico con amarezza – non sanno più gustare
il proprio paese che con l’Abbondanza della bellezza li sovrasta come il cielo
sopra di me e la legge kantiana dentro di loro. Si vive un tempo fatto di
bacchettoni e di reazionari, di stupidi ed eunuchi, di poliziotti della buon
costume e dei sentimenti corretti in servizio permanente effettivo che
confondono reati e peccati, crimini e illeciti, leggi e libertà e sono
giustamente spernacchiati da un’allegra brigata che si denuda e si fa il bagno in
un antico lavatoio come Diana nel laghetto circondata dalle sue belle ancelle e
desiderata da Atteone. Non deve essere per nulla un caso che la scena
mitologica, che tanto mosse l’intelligenza di Bruno, è disegnata per la mano
del Giaquinto nel Castello ducale che con la sua splendida solitudine resiste
ai secoli e alla insipienza di chi governa senza gusto, senza storia, senza
niente di niente. Ma qui nessuno s’indigna.
L’indignazione bisogna riservarla all’incapacità di
vivere e conoscere la città di Sant’Agata dei Goti nella sua disarmante armonia
perduta che da sola, per l’inesauribilità che è propria dello spirito, sarebbe
in grado di dare sostentamento all’economia dell’intera provincia e alla
educazione delle nuove generazioni. Invece, la bellezza santagatese muore sotto
la retorica delle trombe e delle inadeguatezze e rinasce, come un indomabile
frutto selvatico, quando un gruppo ignoto di forestieri compie un gesto
naturale che sarebbe piaciuto a Peppe ‘o nir e a d’Annunzio e a Filippo
Tommaso Marinetti che se venissero di nuovo al mondo cento anni dopo vedrebbero
la volontà di vivere e il futurismo nell’uso vitale del passato e nel desiderio
di immergersi nella storia bella e nella natura verde come in una fonte d’acqua
rigenerante, come rigenerante era l’acqua fredda della fonte di Peppe ‘o nir.