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Elogio di Peppe 'o nir'

giancristiano desiderio
Pubblicato da in Forche caudine · 23 Luglio 2020
Tags: Sant'AgatadeiGotilavatoioturismo

di Giancristiano Desiderio

Giù a Reullo – abbasc’ Reull’ – lì dove Sant’Agata dei Goti si confonde con la campagna e ritorna nella natura da cui sorge come un fiero soldato a cavallo c’è l’antico lavatoio con le sue chiare, fresche et dolci acque dove le donne un tempo lavavano e risciacquavano i panni e la vita dolente. Non solo un lavoro, ma un rito con cui le comari, a volte allegre a volte provate, lavavano i panni sporchi della famiglia e sospiravano per un amore di gioventù. L’altro giorno, nella controra, quando per il caldo cantano grilli e cicale e ci si chiude in casa dietro le persiane nella speranza che passi un filo di vento, una compagnia di donne e uomini, ragazze e ragazzi venuti chissà da dove, come i barbari delle provvidenziali invasioni, si è calata nelle acque belle fredde del lavatoio settecentesco. Nelle fotografie, che sono finite naturalmente sui social, si vedono le scene della bella rinfrescata con le donne in bikini immerse nelle vasche e gli uomini seduti ai bordi sui marmi consumati dal tempo, dall’acqua, dalle braccia, dalla pazienza, dalle delusioni. Così è subito scattata la indignazione che, in verità, ha riguardato più il mondo social che la società santagatese – esisterà pure un animale del genere – e si sono sentiti alzare pistolotti, moralismi, trombonismi. Tutti scandalizzati perché questa bella compagnia di forestieri ha osato senza ritegno spogliarsi e buttarsi in acqua nell’antico lavatoio del Settecento. Ha osato vivere, nientemeno.

A me la vitale immersione è piaciuta assai. Mi è sembrato il modo migliore e più vitale per ridare senso alle acque del lavatoio ormai orfane delle donne e dei loro sciacquamenti. Immagino che la compagnia si sia imbattuta per caso nella bellezza, come spesso accade, e non abbia resistito alla tentazione di bagnarsi e denudarsi all’ombra delle tegole, del tufo e della lussureggiante vegetazione. Non molto lontano da lì c’è la cosiddetta fonte di Peppe ‘o nir – così detto perché scuro scuro di pelle come un nero – che la generazione del padre di chi scrive usava come piscina. La fonte era usata, secoli addietro ma non troppo, pressappoco come il lavatoio, per muovere con la violenta energia dell’acqua le pale della ruota del mulino, ma una volta che la ruota della vita smise di girare per macinare, allora, quelle acque, fredde come il ghiaccio sciolto, furono usate come una piscina o meglio come una grande vasca in cui la gioventù si tuffava come nella vita. Peppe ‘o nir, che per chi scrive si colora nella fantasia come uno strano animale mitologico, una sorta di Minosse buono, si era inventato un ingresso al costo di 100 lire e, oltre all’acqua rinfrescante e l’ombra delle palme, garantiva anche una bella e saporita consumazione fatta di pane di casa, melanzane e pomodori. Lì i giovani santagatesi, quelli della generazione degli anni Sessanta che conoscevano il mondo mediato dal cinema e dal rock nostrano fatto di imitazioni americane e di pane e olio mediterraneo, si buttavano in acqua alla ricerca del fresco e ancor più dell’illusione della loro estate invincibile.

L’usanza di calarsi nelle acque fredde per il salutare refrigerio è, dunque, antica a Sant’Agata. Nello stesso lavatoio un tempo i ragazzini si buttavano con tutti i panni, quelli da lavare e quelli indosso, e chi scrive si è più volte rinfrescato sia nella storia lì dalle parti del ponte di Viggiano, sia sulla fontana detta di Pozzillo sopra Santa Croce, sia nella fontana di Sant’Alfonso vivendo così il proprio paese con la stessa passione che si brucia nella conoscenza per meglio apprezzarne il sapore e la bellezza nei giorni dorati della bella stagione che si apre dolce come una susina dal colore giallo-oro. I santagatesi – lo dico con amarezza – non sanno più gustare il proprio paese che con l’Abbondanza della bellezza li sovrasta come il cielo sopra di me e la legge kantiana dentro di loro. Si vive un tempo fatto di bacchettoni e di reazionari, di stupidi ed eunuchi, di poliziotti della buon costume e dei sentimenti corretti in servizio permanente effettivo che confondono reati e peccati, crimini e illeciti, leggi e libertà e sono giustamente spernacchiati da un’allegra brigata che si denuda e si fa il bagno in un antico lavatoio come Diana nel laghetto circondata dalle sue belle ancelle e desiderata da Atteone. Non deve essere per nulla un caso che la scena mitologica, che tanto mosse l’intelligenza di Bruno, è disegnata per la mano del Giaquinto nel Castello ducale che con la sua splendida solitudine resiste ai secoli e alla insipienza di chi governa senza gusto, senza storia, senza niente di niente. Ma qui nessuno s’indigna.
L’indignazione bisogna riservarla all’incapacità di vivere e conoscere la città di Sant’Agata dei Goti nella sua disarmante armonia perduta che da sola, per l’inesauribilità che è propria dello spirito, sarebbe in grado di dare sostentamento all’economia dell’intera provincia e alla educazione delle nuove generazioni. Invece, la bellezza santagatese muore sotto la retorica delle trombe e delle inadeguatezze e rinasce, come un indomabile frutto selvatico, quando un gruppo ignoto di forestieri compie un gesto naturale che sarebbe piaciuto a Peppe ‘o nir e a d’Annunzio e a Filippo Tommaso Marinetti che se venissero di nuovo al mondo cento anni dopo vedrebbero la volontà di vivere e il futurismo nell’uso vitale del passato e nel desiderio di immergersi nella storia bella e nella natura verde come in una fonte d’acqua rigenerante, come rigenerante era l’acqua fredda della fonte di Peppe ‘o nir.



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