di Giancristiano Desiderio
A Benevento non accade nulla. A Rione Libertà accade
tutto. Sangue. Sesso. Soldi. Droga. Fuoco. Disperazione. Amore. Fede.
Sacrificio. Speranza. Il quartiere che ha nel nome la libertà, ma fu ideato e
costruito durante il fascismo quando la libertà non c’era, è nel bene e nel
male tutto quanto c’è di meglio e di peggio a Benevento, anche se a Benevento e
alla sua cultura snobistica poco interessa. Cadendo al di là del confine
naturale del Sabato, il Rione Libertà non è nel mezzo tra il Sabato e il Calore
e i beneventani considerano caput mundi ciò che succede tra i due fiumi
mentre ciò che è al di là è già contado, periferia, suburbio. Gli abitanti dopo
il Sabato, come se vivessero in una sorta di eterna domenica dello spirito, non
si sentono fino in fondo di Benevento e nella scacchiera dove sono
acquartierati rappresentano una Benevento anti-beneventana o un’Antibenevento
che ha con gusto sulle palle la Benevento da bere del perbenismo e del
socialismo fighetto senza fica.
Una volta la buonanima dell’architetto Nicola
Pagliara, che era assessore a Palazzo Mosti, si trovò in Piazza Santa Sofia, partecipava
ad una manifestazione in cui da una parte c’era chi sosteneva, dando corso ad
una vecchia delibera del tempo della Democrazia cristiana, di chiamare Piazza
Santa Sofia addirittura Piazza Santa Sofia come dicono tutti e dall’altra parte
c’erano coloro che si opponevano e protestavano dicendo che Piazza Santa Sofia
pur chiamandosi popolarmente Piazza Santa Sofia doveva continuare ad avere come
nome ufficiale scritto sul marmo Piazza Giacomo Matteotti. L’architetto nella
bolgia e nel chiasso cercava con fatica di spiegare le sue ragioni ma gli
oppositori – socialisti, comunisti, giornalisti, centrisociali e tutti coloro
che credevano d’essere ciò che dicevano d’essere – si erano organizzati e lo
fischiavano, insultavano e talvolta spintonavano, quando Pagliara esasperato
sbottò e urlò: “Basta! Ma quale Piazza Matteotti e quale Piazza Santa Sofia! La
verità è che Benevento una Piazza non ce l’ha e ne ha un disperato bisogno
perché deve imparare a discutere”. L’unica vera Piazza di Benevento, ripeteva
l’architetto, è il Rione Libertà che, però, per i beneventani è una specie di
apartheid. Nicola Pagliara non era beneventano ma romano e napoletano
d’adozione e come tutti i forestieri o stranieri che attraversano in senso
inverso le Colonne d’Ercole di Sferracavallo aveva subito percepito la
separazione che c’è tra Benevento e il suo quartiere più popolare e più
popoloso.
Lo snobismo beneventano non ama il Rione Libertà, lo
tollera. Lo pensa come un ghetto e lo tiene a debita distanza, confinato, separato,
ritagliato perché sotto sotto pensa che il Rione non sia Benevento. Per il
beneventano snob il Rione Libertà è fuori Benevento e fuori Benevento son
inevitabilmente tutti figli di un dio minore. Si tratta di un grave errore
perché il motore cittadino risiede proprio in quella popolarità
extra-territoriale che avvertendo di non essere né amata né accolta riversa il
suo sentimento più schietto non sulla Benevento romana cattolica apostolica ma
sul Benevento calcio. Rione Libertà sente il senso di appartenenza per il
Benevento ma non per Benevento, per la squadra ma non per la città perché
avverte lucidamente a pelle che la città non fa squadra. Non a caso lo Stadio è
nel Rione e vi sta come un tempio o una chiesa che accoglie ogni domenica sia i
fedeli, la plebe, sia gli infedeli, l’aristocrazia cittadina. La separatezza è
avvertita giù alle palazzine a tal punto da diventare orgoglio, rivendicazione
e, addirittura, coscienza di classe con cui chi sta sotto aspira a stare sopra
e chi sta sopra va sotto, come dicevano Hegel, Marx e Renzo Arbore.
Nessuno
meglio del popolarismo del Rione Libertà conosce la chiusura della mente
beneventana. Gli intellettualini beneventani recitano la parte dell’avanguardia
e credono d’essere la vera coscienza di classe con cui educare il popolino ma
giù a Rione Libertà se ne sbattono altamente di queste scemenze nelle quali
vedono giustamente solo l’eterna ossessione dei maestrini risentiti che
coltivano l’incubo della oscura dittatura illuminata e così ad ogni giro di
giostra elettorale il Rione si prende la libertà di scegliere come votare e letteralmente
decidere il sindaco che butterà giù quando inizierà a dare segni di onniscienza
divina.
A volte mi sorprendo a pensare che il Rione Libertà sia
l’unica speranza che ha Benevento. Lì la vita è più difficile, agra, sfacciata,
verde ma proprio perché tale è più vera e più forte. Qui, nella periferia del
suburbio, Benevento diventa per l’unica volta città, mentre nel centro
longobardo e pontificio è un paesone che si contempla l’ombelico scoperto
dall’inutile vanità dell’Unesco. Allora, capisco perché Pagliara, colpito da
un’intuizione impossibile, avrebbe voluto non solo dare alla memoria di
Matteotti una piazza in cui il suo nome non fosse stato nascosto dall’eccesso
di storia, ma avrebbe voluto anche spostare nientedimeno che l’Arco di Traiano
per collocarlo proprio in cima al Rione Libertà, come segno di trionfo e
ingresso nella città viva.