di Giancristiano Desiderio
Il
vero valore della scuola è legale o culturale? La crisi del sistema
dell’istruzione italiana, che non nasce di certo oggi, è tutto nella risposta a
questa domanda. Però, prima di rispondere, mi sia concesso un aneddoto perché,
come ci ha insegnato Croce, gli aneddoti possono essere illuminanti. Salvatore
Valitutti, natio di Bellosguardo in provincia di Salerno, era ministro
dell’Istruzione e, in un’occasione conviviale, a chi gli disse per
scandalizzarlo che le scuole di ogni ordine e grado andavano chiuse rispose in
modo spregiudicato: “Lei non ha tutti i torti sa; sì, andrebbero chiuse per poi
riaprirle su nuove basi giuridiche ed istituzionali perché una democrazia
moderna non può vivere senza la scuola”.
L’episodio
mi è ritornato alla mente leggendo l’ottimo articolo di Francesca Giusti che,
affrontando il tema in modo anti-retorico, ha sottolineato che con le scuole
chiuse si sono aperte paradossalmente le porte delle classi e si è gettato un
fascio di luce all’interno ed è emersa “una didattica povera di cultura e di
umanità” che fa capire perché “la maggior parte dei nostri studenti non sanno
più leggere semplicemente perché la scuola non è più in grado di
insegnarglielo”. Gli stessi “istruttori” – e la parola non è usata a caso dalla
Giusti – andrebbero re-istruiti, bisognerebbe recuperare una capacità di
pensare per distinguere il vero dal falso e “ripartire dalle fondamenta”.
Insomma, con la complicità di un virus venuto dall’Asia, una sorta di “astuzia
della ragione”, è accaduto proprio quanto aveva detto che si sarebbe dovuto
fare Valitutti.
Ora
possiamo rispondere alla domanda. Il valore della scuola è culturale e
educativo, ma siccome la scuola è stata caricata di un valore legale ne è
scaturita non solo una crisi ma un vero e proprio snaturamento del rapporto
allievo-insegnante. Infatti, mentre il “valore legale” – il diploma, la laurea
– si può possedere, si può concedere, si può perfino comprare, il “valore
culturale” si può solo conquistare con la motivazione per lo sforzo degli
studi, tanto degli alunni quanto degli insegnanti.
Luigi Einaudi, che prima di
essere un economista e poi diventare presidente della repubblica fu un
insegnante, protestò veementemente quando il governo Mussolini introdusse il
valore legale dei titoli di studio e da costituente votò persino contro
l’articolo 33 della Costituzione che istituiva l’esame di Stato. Tuttavia, in
quel tempo, come ha rilevato bene Sabino Cassese, i titoli di studio avevano
ancora un semi-valore legale ed erano una pre-condizione per accedere ad altro,
mentre oggi sono titoli validi per l’esercizio delle corrispondenti attività e
per le qualifiche del pubblico impiego. Il risultato è un disastro completo
perché da un lato, introducendo il veleno come diceva Einaudi del valore legale,
si è snaturata la scuola e dall’altro si sono burocratizzate le professioni
svuotandole di reali competenze. Non a caso nella scuola si parla di “didattica
delle conoscenze” e insieme di “didattica delle competenze” mischiando pere e
mele.
Per
recuperare il valore autentico della scuola è necessario fare quel che voleva
dire Valitutti al suo non stupido interlocutore: abolire il valore legale dei
titoli di studio. Che, in concreto, significa passare dagli esami di licenza o
in uscita agli esami di ammissione o in entrata, sia per la scuola sia per
l’università, e invece svolgere rigorosi esami di abilitazione per l’accesso
alle professioni e all’impiego. La differenza tra gli esami è la seguente: gli
esami di ammissione sarebbero scolastici e accademici, cioè culturali, mentre
gli esami di abilitazione sarebbero “di Stato” ossia extra-scolastici e
accerterebbero le specifiche competenze richieste. Così si recupererebbe il
valore culturale della scuola e dell’accademia e, a ben vedere, perfino il
senso delle cose e delle parole ormai vacue.
tratto dal Corriere del Mezzogiorno dell'11 giugno 2020