di Giancristiano Desiderio
Chi
era Paolo Isotta? Il critico musicale del nostro tempo che ha rivalutato il
Novecento musicale italiano in cui vedeva primeggiare i Dioscuri, come li
definiva, Franco Alfano e Gino Marinuzzi, mentre quando si faceva avanti sulla
scena Ottorino Respighi lo chiamava “il terzo moschettiere”. Ma perché
soffermarsi ora, ora che è morto, sull’opera di Paolo Isotta? Ci sarà tempo e
chi verrà avrà da scorrere i suoi articoli per il Giornale di Montanelli
e i suoi elzeviri per il Corriere della Sera ed i suoi saggi su Rossini
e Wagner, Handel e Renata Tebaldi per storicizzare sia il professore che
insegnava al Conservatorio di San Pietro a Majella, sia il critico musicale che
si sentiva di essere secondo solo al grande Guido Pannain che considerava “il
più geniale musicologo del Novecento” (forse, anche per far dispetto a Piero
Buscaroli). A noi oggi, a me, spetta ricordare l’uomo, l’amico, il signore
napoletano che era e che amava la vita con un senso, insieme, che sapeva di
Apollo e di Dioniso e sapeva di doverla amare e prendere a morsi per darle una
forma e un ritmo musicale prima che la vita prendesse a morsi lui e lo
travolgesse.
Questa
cosa è tanto curiosa quanto vera: Paolo, Paolino come lo chiamavano gli amici,
era famoso pur non mettendo mai piede in televisione. L’ho conosciuto prima
come critico e poi di persona. Dalla sua casa sul tetto di Napoli si vede il
mare e allungando la mano sembra di toccare Capri. “Giancristiano”, mi diceva, “il
tuo libro su don Benedetto fa schiattare di invidia il povero Nicolini che si arravota
nella tomba”. Io mi schermivo e cambiavo discorso cercando di star dietro alle
sue citazioni di Manzoni o di Giovan Battista Marino o, in latino, del suo
amato Virgilio. Quella mattina di giugno, con un sole che entrava dalle grandi
vetrate che danno sulla terrazza e sul Golfo, mangiammo prima degli ottimi
spaghetti alle vongole e poi delle saporitissime alici indorate e fritte che la
gentile cameriera, che Paolo chiamava con il campanello come un chierichetto
che scampanella sull’altare, facendo avanti e indietro dalla cucina ci
riversava nel piatto in abbondanza. Come mordeva la vita così mangiava e beveva
la felice Falanghina, mentre Ciampa, il cagnolino, a dir la verità scassava le
palle.
Paolo
Isotta ha avuto una vita felice e piena, anzi – come dice lui stesso con una
giusta avversativa nelle sue memorie La virtù dell’elefante – “una vita
straordinariamente felice ma anche piena”. Gli piaceva stare in compagnia e
fare il capobanda. Una sera a Benevento, alla trattoria da Nunzia, eravamo una
decina e più o meno tutti mezzo ubriachi. La signora Nunzia è abituata, con
insieme piglio e gentilezza, ad essere la padrona di casa, ma quella sera non
ci fu verso: doveva comandare, anzi, “dirigere” Paolo e così la locandiera,
dopo aver rischiato prima uno scontro fisico col maestro, capì che doveva
cedere il passo e Isotta, che disse peste e corna di Antonio Pappano, fece il
mattatore fino a notte fonda, come se fosse stato ispirato insieme dal suo
amato Schonberg e Pulcinella.