di Giancristiano Desiderio
Negli
ultimi tempi gli studi storici riguardanti l’unità d’Italia e il Mezzogiorno ci
hanno offerto non pochi libri degni di essere conosciuti. Cito qualche titolo: La
guerra per il Mezzogiorno (Laterza) di Carmine Pinto; Unità a
Mezzogiorno (Il Mulino) di Paolo Macry; Murat (Salerno Editrice) di
Renata De Lorenzo; anche il recente Il brigantaggio post-unitario come
problema storiografico (D’Amico Editore) di Eugenio Di Rienzo; e,
naturalmente, la grande opera sul Regno di Napoli di Giuseppe Galasso
significativamente inserita all’interno della Storia d’Italia (Utet).
A
latere di questa ricca produzione storiografica si è sviluppato il fenomeno
pubblicistico del Movimento neoborbonico a cui va riconosciuto un merito: aver
risvegliato una passione civile per gli studi storici che ha dato buoni frutti
sia alimentando la storiografia qui sopra citata sia maturando una più
avvertita coscienza nazionale del Mezzogiorno. Il neoborbonismo, infatti,
soprattutto nella sua prima fase, ha denunciato stragi ed eccidi dell’esercito
italiano – gli esempi classici sono Pontelandolfo e Fenestrelle – che si sono
rivelati essere leggende e fake news che, documenti alla mano, sono
state smascherate da una serie di testi e di studiosi come Alessandro Barbero,
Juri Bossuto, Luca Costanzo, Fernando Davide Panella, Ugo Simeone, Silvia
Sonetti e anche – domine non sum dignus – dal sottoscritto con il libro Pontelandolfo
1861. Tutta un’altra storia (Rubbettino, II edizioni).
Ora, in seguito a
questo lavoro filologico e narrativo, è uscito l’ottimo testo di Dino Messina, Italiani
per forza. Le leggende contro l’unità d’Italia che è ora di sfatare
(Solferino), che è un libro-inchiesta che mette a fuoco soprattutto due
aspetti: le manipolazioni che sono state fatte della storia (che sono giunte,
sulla base di invenzioni, anche a coinvolgere le istituzioni) e il ruolo attivo
svolto dal Mezzogiorno nel Risorgimento.
Il
Movimento neoborbonico, a fronte di questi risultati, dovrebbe avere l’umile
accortezza di rivedere le proprie posizioni per aprire una nuova fase della sua
militanza. Invece, come testimonia l’intervento di ieri su queste pagine di
Gennaro De Crescenzo, persevera nell’errore: infatti, da un lato, discutendo il
libro di Messina, rivendica ancora la logica delle leggende – e questa, ormai,
è cosa che sconfina nel cattivo gusto e non mi interessa più – e dall’altra
prova ad aprire un nuovo fronte cercando di svalutare lo stesso risorgimento
meridionale. Ma, come sanno sia gli studiosi sia i lettori avveduti, le idee
risorgimentali hanno origine proprio nel Mezzogiorno e la stessa dinastia
borbonica, con il dispotismo illuminato di Carlo III e della regina Maria
Carolina prima della Rivoluzione in Francia, ne fece parte, per poi distaccarsi
dalle idee di libertà e costituzione legando il proprio destino, anche a costo
di tradimenti, congiure, prigionie, morti, all’assolutismo reazionario e
all’uso della plebe contro la borghesia.
Le ultime parole della Storia del
Regno di Napoli di Benedetto Croce sono rivolte al ceto intellettuale
napoletano, che fu in larga parte decapitato a Piazza dei Martiri nel 1799, ma
possono valere per tutti gli esuli e tutti gli uomini del Risorgimento:
“Benedetta sia sempre la loro memoria e si rinnovi perpetua in noi l’efficacia
del loro esempio”. Il Movimento neoborbonico è libero di dileggiare i grandi
uomini che sacrificarono la vita per la libertà ma stia attento perché per
questa via non solo separa sé stesso dalla vita nazionale ma anche dalla storia
di Napoli. Si può capire, allora, che il Movimento neoborbonico non ha un
problema con la storia ma con la teoria della storia. Perché, infatti, si
studia la storia: per comprenderla o per giustiziarla? Gli uomini sono animali
storici e sono obbligati a conoscere il passato per liberarsene.
I
neoborbonici, invece, fanno l’inverso: o lo mitizzano o lo odiano e ci si
rinchiudono dentro. Così ci si meraviglia che le potenze europee non erano
indifferenti ai destini italiani, come se gli Stati italiani vivessero in un
mondo a parte; oppure si evidenzia che la differenza sociale ed economica tra
Nord e Sud aumentò dopo il 1861 più di quanto non si verificò prima, come se
l’orologio della storia si fosse dovuto fermare al tempo dei cavalli, delle
carrozze e della ferrovia Napoli – Portici.
Tutto
ciò evidenzia che il neoborbonismo non è un problema per la storiografia ma per
gli stessi neoborbonici che devono scegliere: fare i conti con sé stessi o
estinguersi, riformarsi o essere ininfluenti. Ciò che ha dato loro fastidio,
ossia il titolo del Corriere della Sera: “Scacco ai neoborbonici”, è
effettivamente ciò che si è realizzato: sono sotto scacco. Non da parte mia o
di Dino Messina, ma della stessa storia che si rovescia addosso a chi la strumentalizza.
I neoborbonici, se volessero, potrebbero svolgere un ruolo: essere da stimolo
per le classi dirigenti del Mezzogiorno. Ma per farlo devono deporre vittimismo
e risentimento e accettare con la serenità del giudizio l’unità d’Italia. Scacco
matto.
tratto da il Corriere del Mezzogiorno dell'11 marzo 2021