di Giancristiano Desiderio
Lo
si potrebbe dire con una battuta non del tutto inadeguata: il Movimento
neoborbonico è passato da Nicola Zitara a Luca Zaia. Nel passaggio dallo
scrittore, che inventò il mito dello Stato autonomo delle Due Sicilie quale
risposta ai problemi del Mezzogiorno, al governatore del Veneto quale modello a
cui ispirarsi per la ricerca di un leder possibile per i duosiciliani,
c’è tutto il destino dei neoborbonici che hanno finalmente gettato la maschera
e hanno detto ciò che sono: un partito politico. Contrariamente a quanto si
possa credere, è una buona notizia perché è la fine di un equivoco: i
neoborbonici con la decisione di “scendere in campo”, come recita la formula
resa famosa da Silvio Berlusconi, dicono apertamente di fare politica e non
storiografia.
Il Movimento neoborbonico non è un centro studi, non esprime
giudizi storici, non ha per scopo la verità storica ma è un’organizzazione
politica che fa propaganda, esprime valutazioni politiche e ha per scopo la
conquista di voti. E’ un passo avanti significativo perché la chiarezza e il
riconoscimento sono importanti elementi della vita civile e della democrazia
che, all’inverso, risentono della confusione, dell’ambiguità e delle false
identità. Da oggi sappiamo che i neoborbonici non ci raccontano come andarono veramente
i fatti nel passato ma, tutt’al più, ci forniscono una loro versione di comodo
del passato nel tentativo di giustificare la loro esistenza nel presente per
affermarsi elettoralmente. Appunto, non storia ma politica.
Lo
stesso presidente del movimento che diventa partito, Gennaro De Crescenzo, lo
ha detto con un certo candore ad Angelo Agrippa quando, rivelando un po’ il
segreto di Pulcinella, ha ammesso che la loro è “una provocazione storica
utile” a rappresentare “degnamente il nostro Sud”. E ha aggiunto: “Non siamo né
monarchici, né secessionisti”. Ma, allora, verrebbe da dire, cosa resta del
mito del Regno delle Due Sicilie presentato come una sorta di “paradiso
perduto” al quale ritornare per riscattare il Sud? E cosa resta dell’idea
antirisorgimentale di un’unità d’Italia ottenuta non grazie allo stesso
pensiero politico meridionale e ai suoi esuli bensì con un’invasione
illegittima dei Piemontesi a danno del Sud trasformato in colonia? Per dirla
con Enzo Striano, niente, il resto di niente. Rimane solo un mito costruito ad
arte per l’affermazione di un movimento politico. E, forse, non c’è neanche da
stupirsi più di tanto perché è sempre accaduto così: tutte le forze politiche
si sono avvalse di una mitologia per giustificare sé stesse. La storia d’Italia
del Pci è coscienza di classe e non storiografia. Il fascismo vide in sé stesso
il vero risorgimento italiano. E anche gli stessi liberali e cattolici
dell’Ottocento dovettero far ricorso al mito di un’Italia guelfa e al “primato
italiano” per dar forza al loro velleitario progetto unitario. Dunque, nulla di
nuovo sotto il sole. Ma c’è un ma.
Se
si è dissolto l’equivoco culturale, resta l’ambiguità politica che ha la sua
origine proprio nel modello duosiciliano come mito anti-risorgimentale.
Lo ha sottolineato Marco Demarco: i neoborbonici sono avversari della Lega di
Salvini ma s’ispirano a Zaia quale leader autonomista. Come si fa a tenere
insieme due cose tra loro contrarie? L’autonomia è concepibile solo nel
contesto nazionale. L’ambiguità di fondo del partito politico neoborbonico è
nel suo spirito anti-risorgimentale che va respinto con chiarezza. Cari
neoborbonici, ancora uno sforzo.
tratto dal Corriere del Mezzogiorno del 7 giugno 2019