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Fine dell'equivoco neoborbonico

giancristiano desiderio
Pubblicato da in Italia mia benché · 7 Giugno 2019
Tags: neoborbonicielezionisudlega

di Giancristiano Desiderio

Lo si potrebbe dire con una battuta non del tutto inadeguata: il Movimento neoborbonico è passato da Nicola Zitara a Luca Zaia. Nel passaggio dallo scrittore, che inventò il mito dello Stato autonomo delle Due Sicilie quale risposta ai problemi del Mezzogiorno, al governatore del Veneto quale modello a cui ispirarsi per la ricerca di un leder possibile per i duosiciliani, c’è tutto il destino dei neoborbonici che hanno finalmente gettato la maschera e hanno detto ciò che sono: un partito politico. Contrariamente a quanto si possa credere, è una buona notizia perché è la fine di un equivoco: i neoborbonici con la decisione di “scendere in campo”, come recita la formula resa famosa da Silvio Berlusconi, dicono apertamente di fare politica e non storiografia.

Il Movimento neoborbonico non è un centro studi, non esprime giudizi storici, non ha per scopo la verità storica ma è un’organizzazione politica che fa propaganda, esprime valutazioni politiche e ha per scopo la conquista di voti. E’ un passo avanti significativo perché la chiarezza e il riconoscimento sono importanti elementi della vita civile e della democrazia che, all’inverso, risentono della confusione, dell’ambiguità e delle false identità. Da oggi sappiamo che i neoborbonici non ci raccontano come andarono veramente i fatti nel passato ma, tutt’al più, ci forniscono una loro versione di comodo del passato nel tentativo di giustificare la loro esistenza nel presente per affermarsi elettoralmente. Appunto, non storia ma politica.

Lo stesso presidente del movimento che diventa partito, Gennaro De Crescenzo, lo ha detto con un certo candore ad Angelo Agrippa quando, rivelando un po’ il segreto di Pulcinella, ha ammesso che la loro è “una provocazione storica utile” a rappresentare “degnamente il nostro Sud”. E ha aggiunto: “Non siamo né monarchici, né secessionisti”. Ma, allora, verrebbe da dire, cosa resta del mito del Regno delle Due Sicilie presentato come una sorta di “paradiso perduto” al quale ritornare per riscattare il Sud? E cosa resta dell’idea antirisorgimentale di un’unità d’Italia ottenuta non grazie allo stesso pensiero politico meridionale e ai suoi esuli bensì con un’invasione illegittima dei Piemontesi a danno del Sud trasformato in colonia? Per dirla con Enzo Striano, niente, il resto di niente. Rimane solo un mito costruito ad arte per l’affermazione di un movimento politico. E, forse, non c’è neanche da stupirsi più di tanto perché è sempre accaduto così: tutte le forze politiche si sono avvalse di una mitologia per giustificare sé stesse. La storia d’Italia del Pci è coscienza di classe e non storiografia. Il fascismo vide in sé stesso il vero risorgimento italiano. E anche gli stessi liberali e cattolici dell’Ottocento dovettero far ricorso al mito di un’Italia guelfa e al “primato italiano” per dar forza al loro velleitario progetto unitario. Dunque, nulla di nuovo sotto il sole. Ma c’è un ma.

Se si è dissolto l’equivoco culturale, resta l’ambiguità politica che ha la sua origine proprio nel modello duosiciliano come mito anti-risorgimentale. Lo ha sottolineato Marco Demarco: i neoborbonici sono avversari della Lega di Salvini ma s’ispirano a Zaia quale leader autonomista. Come si fa a tenere insieme due cose tra loro contrarie? L’autonomia è concepibile solo nel contesto nazionale. L’ambiguità di fondo del partito politico neoborbonico è nel suo spirito anti-risorgimentale che va respinto con chiarezza. Cari neoborbonici, ancora uno sforzo.

tratto dal Corriere del Mezzogiorno del 7 giugno 2019



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