di Giancristiano Desiderio
Le
ultime parole di Ludwig Wittgenstein sul letto di morte furono: “Dite loro che
ho avuto una vita meravigliosa”. Mi sono ritornate in mente leggendo il libro
che Enrico Vanzina ha dedicato alla vita e alla morte del suo amato e ammirato
fratello: Mio fratello Carlo (HarperCollins). Inizia così, con la
“scena” in cui i due fratelli del cinema italiano, figli di uno dei padri del
cinema italiano, il grande Steno, sono al tavolo da lavoro e Carlo, che ha già
da tempo il cancro che lo condurrà di lì a poco alla morte, si alza, si
avvicina al fratello, “mi sfiorò i capelli con il palmo della mano”, e dice:
“Stai tranquillo. Ho avuto una vita meravigliosa”.
Se la vita è stata bella e
meravigliosa, come dicono il filosofo e il regista, cosa si vuole di più? Per
chi resta e deve imparare a staccarsi dagli affetti per le persone e per le
cose e continuare a camminare senza cadere dovrebbe essere una consolazione.
Forse, è per questo motivo che Enrico ha scritto di Carlo, che sorrideva poco e
aveva un’aria malinconica alla Buster Keaton: per consolarsi e assaporare
ancora quella “fratellanza speciale” che li legava nella vita e continua a
legarli dopo la morte con la foscoliana “corrispondenza d’amorosi sensi” che
conosce chi ha amato.
Mio
fratello Carlo è scritto come un film. Forse, lo è.
Carlo Delle Piane, recentemente scomparso, ha detto: “Il cinema è la vita”.
Enrico Vanzina avrebbe fatto volentieri a meno di scriverlo perché gli è
costato dolore e lacrime ma “sentivo che dovevo scriverlo” e ora lo ritiene
“la cosa migliore che ho fatto nella mia vita”. Probabilmente ha ragione. Il
romanzo - in copertina è riportata
proprio questa dicitura - non è patetico
e non racconta la carriera romanzata del regista di Sapore di mare, ma
narra gli ultimi mesi della vita del fratello quasi in modo cronachistico,
perfino crudo, proprio come è cruda e verde la vita per ognuno di noi nel suo
inizio e nella sua fine.
Mettendo in scena la morte di Carlo, Enrico Vanzina
racconta inevitabilmente la “sua” vita: dove il pronome possessivo è
volutamente equivoco. Sua è, infatti, sia la vita di Carlo sia la vita di
Enrico. Le due vite si confondono fino ad essere, forse, una. In fondo, come
dice la frase di Israel Zangwill posta in esergo al testo, “ci vogliono due
uomini per fare un fratello”. Sembra ne manchi uno. Ma c’è. E’ la figura del
Padre - Steno - che lega i due fratelli come solo sa fare e
può fare un demone mediatore. Il libro è, allora, soprattutto la storia di una
famiglia, di una famiglia italiana particolare, raccontata nell’unico modo
possibile: con gli affetti, le conquiste, le cadute, le opere.
Nella
primavera del 2017, quando Carlo era già aggredito dal melanoma ma nessuno lo
sapeva, i due fratelli, alla Galleria d’arte moderna di Roma, a Valle Giulia,
dedicarono una grande mostra al Padre a trent’anni dalla scomparsa. Il nome di
Steno oggi, forse, non dice nulla alle nuove generazioni ma i nuovi italiani se
vogliono un po’ capire chi sono devono anche sapere chi era Steno. Il regista
di tanti film di Totò e Alberto Sordi girò anche i famosissimi Totò a colori,
Un americano a Roma e quel Guardie e ladri, con Totò e Aldo
Fabrizi, che è la poesia dell’amara commedia italiana che cela nel suo fondo la
tragedia dell’umana condizione. Giustamente Vanzina sottolinea che Steno
insieme ai suoi grandi amici Leo Longanesi, Mario Soldati, Ennio Flaiano, Mario
Monicelli e Age e Scarpelli “aveva contribuito alla rinascita dell’Italia del
dopoguerra, con umorismo e intelligenza”. Cosa manca all’Italia di oggi, così
risentita con sé stessa, se non umorismo e intelligenza? La mostra ebbe un gran
successo. Carlo disse a Enrico: “Papà sarà fiero di noi che non lo
dimentichiamo”.
Ecco,
la storia degli ultimi mesi di vita di Carlo Vanzina diventa nel libro del
fratello Enrico il modo e il mondo per raccontare, secondo l’insegnamento
dell’opera paterna, la tragica commedia umana perché “la vita è una finzione
continua, sospesa tra la voglia di capire e la paura di capire”. Solo che
questa volta la finzione è reale. Il film è la vita stessa. Ma, poi, capire
cosa? Che la vita è il lavoro che dobbiamo fare su di noi non solo per campare
ma per dare senso all’esistenza fino a quando la morte ci metterà a riposo. Ma
non è detto neanche che si muoia alla fine. La verità è che noi, come emerge
dal libro, non moriamo quando finiamo ma quando vanno via gli uomini e
le donne a cui abbiamo voluto bene e che ci hanno insegnato a stare al mondo. Con
loro muore anche una parte di noi.