di Giancristiano Desiderio
In ogni provincia italiana, dopo il lockdown,
le aziende sanitarie locali garantiranno la sorveglianza attiva con test
rapidi, tamponi, test sierologici, isolamento individuale? Questa è la domanda
che ci dobbiamo porre e che va posta al governo e ai governatori pretendendo
una risposta precisa e circostanziata. Tutto il resto, per dirla con Califano,
è noia. E, a tal proposito, sono davvero molto utili per capire come stiamo
messi le parole di Angelo Borrelli, capo della Protezione civile, che dopo due
mesi dalla dichiarazione dell’emergenza nazionale e dopo un mese di bollettini
mortuari, ha detto che se continua così, ossia con una crescita del contagio
che è stabile intorno al 4 per cento, a maggio si potrà mettere mano alla
cosiddetta “fase due”. Però, ha aggiunto Borrelli, bisogna fare attenzione
perché “basta un nonnulla e la curva può riprendere a salire”. Ecco, proprio
questo è il punto: che si fa se il contagio risale? Ci sarà la sorveglianza
attiva o ci barricheremo nuovamente in casa come tanti indifesi conigli
ignoranti?
Se si pensa di porre fine agli arresti domiciliari
quando non ci sarà più il virus si pensa un’illusione o un inganno. In realtà,
già oggi sappiamo che il virus non scomparirà come per incanto. Già oggi
sappiamo che il virus continuerà a circolare e che, forse, come quasi sempre
accade con le epidemie, ci sarà anche una seconda ondata. Si tratta di capire
se ci faremo trovare preparati con una risposta razionale e utile o se ci
faremo trovare per la seconda volta impreparati. La lezione da imparare dalla
storia della nostra impreparazione – la lezione che ci dà la storia, non di
certo io, perché le lezioni si prendono, non si danno come diceva Pavese – è se
siamo in grado di adottare in modo lucido e tempestivo il metodo della
sorveglianza attiva isolando il contagio e lasciando alla vita civile di
continuare a lavorare nell’interesse dei vivi e dei malati o se, invece, come
se non avessimo un dramma nazionale alle spalle ci faremo nuovamente prendere
dal panico, ci chiuderemo in caso e riprenderemo allegramente a colpevolizzare
chi passeggia, chi critica, chi vuole lavorare perché al mondo non è stato
inventato ancora un altro modo per stare al mondo. Ecco perché oggi – oggi – il
compito più importante sia del governo sia delle regioni non è quello
giustizialista di far credere che chi esce è responsabile della diffusione del
virus, che infatti circola indisturbato nelle case, bensì l’altro e decisivo di
organizzare nei presìdi delle aziende sanitarie locali la strategia della
sorveglianza attiva che – come già detto in altri articoli – è semplicemente il
metodo classico che si usa nel controllo e nella mitigazione delle epidemie.
Questo è uno strano Paese. Le classi dirigenti poste
davanti all’infezione da Covid-19 hanno avuto due reazioni tra loro opposte. La
prima è stata quella dell’allegria, dell’apericena e dell’immancabile accusa di
razzismo e di inciviltà scagliata contro chi sollevava qualche dubbio e
auspicava di non farsi trovare impreparati. La seconda è stata quella del fuggi
fuggi, della chiusura totale, del dagli all’untore e della delazione elevata a
senso di responsabilità civile. In entrambi i casi, sia con il metodo Apericena
sia con il metodo Chiudi Tutto, a pagare i danni umani ed economici – dove i
secondi non sono meno umani degli umani – chi è stato? I più indifesi. I più
fragili. I più esposti. I più diseguali. Le classi dirigenti progressiste, che
hanno sempre pronta a portata di mano la predica sull’uguaglianza e le pari
opportunità, si sono chiuse dentro e hanno dato la parola d’ordine – guai a chi
esce, chi esce è incivile – ma non hanno minimamente considerato che la gran
parte dei diseguali non ha le loro case, non ha i loro guadagni, non ha un
sistema di benessere diffuso che permetta un piacevole dolce far niente.
Eppure, vedrete che una volta passata la tempesta si ricomincerà pari pari con
gli stessi discorsi dell’uguaglianza e delle pari opportunità che nel momento
della prova e del bisogno sono regolarmente traditi.
La vera vittima illustre, si fa per dire, del Covid-19
è la classe dirigente italiana, quella dell’Anticasta e del Giustizialismo, che
ha dimostrato con i fatti di essere assolutamente impreparata a governare e che
posta davanti ad un’infezione oscilla tra la commedia e la tragedia elaborando
astruse teorie di crisi del capitalismo e avanzando come soluzione del dramma l’origine
del problema: l’eterno statalismo. E’ questa una classe dirigente che crede che
il futuro dell’Italia sia pagare i debiti con i debiti e far soldi con la zecca
dello Stato perché ha una concezione semplicemente rancorosa e invidiosa della
società e del lavoro che considera un mezzo e un peso da cui sgravarsi per
tenere gli uomini uguali non nella libertà, unica uguaglianza possibile, ma
nella miseria. E’ questa la classe dirigente denudata da un virus che dà
lezioni all’universo sul come mettere le brache al mondo, che accusa la
liberale Inghilterra di darwinismo sociale se ipotizza l’immunità di gregge ma
apprezza la socialdemocratica Svezia se fa la stessa cosa con il nome diverso
di contagio graduale, che vede in Orban un novello Mussolini e in Conte un
nuovo sir Winston senza temere di suscitare le risa degli dèi. Ecco perché a maggio, il mese delle rose, non avremo
la sorveglianza attiva provincia per provincia, mentre i furbi useranno ancora
gli stupidi per colpevolizzare chi esce per cogliere una rosa.