di Gennaro Malgieri
Avevo
sedici anni quel 21 luglio del 1969, alle 4.57, ora di Huston (Texas), quando
Neil Armstrong poggiò il piede sulla Luna, seguito a ruota da Buzz Aldrin,
mentre Michael Collins restava ai comandi della navicella spaziale. Un miliardo
di esseri umani rimase incantato dall’impresa. Io la subii come una
profanazione. Non gioii, non mi lasciai trascinare dall’entusiasmo di quella
che pure consideravo un’impresa di straordinario rilievo umano, tecnologico e
soprattutto politico. Raccolsi i molti ritagli di giornali che avevo messo da
parte nei giorni precedenti e me ne andai a letto. Insieme con Lodovico Ariosto
(fresco di studi) ed il Viaggio di Astolfo sulla
Luna tratto dall’Orlando furioso.
L’illusione
di trovare sul nostro satellite ciò che avevamo perduto sulla Terra si confermò
sotto i miei occhi. E per quanto Armstrong poteva far ridere con i suoi
saltelli da canguro sulla superficie lunare, non riuscì a convincermi,
nonostante le enfatiche cronache ed i grotteschi litigi televisivi (esilarante
quello tra Ruggero Orlando e Tito Stagno sui tempi dell’allunaggio), in me
produsse una grande malinconia. Realizzavo che un sogno si stava spegnendo, che
filastrocche infantili sull’altro latteo fossero finite in un attimo tra le
carabattole destinate all’oblio, che soprattutto i poeti che mi avevano sfinito
con i loro richiami lunari si sarebbero visti cancellati versi e poemi da
quegli omini scafandrati a quattrocentomila chilometri di distanza precursori
di un “mondo nuovo”, di una vera “nuova frontiera” sulla quale non ci sarebbe
stato più posto per le emozioni, le lacrime e i sorrisi di bambini e anziani,
di amanti e contemplatori, di inseguitori delle avventure dello spirito e dei
credenti nell’inviolabilità dell’universo, fermi alla Genesi,
libro di tutti i libri. M’infastidiva dover dare ragione a chi sessant’anni
prima aveva dichiarato il proposito di distruggere “il chiaro di luna”: poi,
quanto lo avrei amato Filippo Tommaso Marinetti, ma in quel momento la sua vittoria
era la mia sconfitta nel cui dolore accomunavo i lirici greci e Virgilio (nell’
Eneide il verso che mi porto dentro: “i
complici silenzi della luna”), Dante e Petrarca, Leopardi e Baudelaire, Hugo e
D’Annunzio.
Persi
il “mite chiarore” dannunziano. E mi sembrò un’ingiusta spoliazione di tutto ciò
che avevo riposto in quell’astro che fin da bambino accompagnava le mie serate,
rendendole povere quando non appariva e gioiose nelle notti di plenilunio,
soprattutto d’estate, quando mi attardavo guardandola intensamente, affidandole
i miei pensieri più segreti, fino ad addormentarmi in giardino o sul terrazzo
alla sua fredda luce.
Mi
rendo conto, cinquant’anni dopo, che i furori adolescenziali sono fuorvianti.
Ma quello, la mia dedizione alla Luna, come ad un familiare del quale non si può
fare a meno, non mi sembrò e non mi appare ancora oggi tale. Soprattutto
razionalizzando i presunti benefici che l’umanità avrebbe tratto dalla “conquista
lunare”. Non saprei dire se la ricerca scientifica applicata alla qualità della
vita abbia fatto progressi: non mi sembra, ma non ho gli elementi per
sostenerlo. So per certo, tuttavia, che
la tecnologia se n’è giovata ampiamente e ha persino innescato gravi turbamenti
nell’ordine esistenziale: lo spazio, dopo la “profanazione” della Luna si è riempito
di cianfrusaglie inquinanti una parte non sappiamo quanto estesa dell’universo,
comunque considerevole; le macchine dedite a spiare individui e popoli, a
violare intimità e a condizionare le attività industriali, belliche, usi e
costumi ancestrali e riti religiosi coltivati nella riservatezza più assoluta
sono stati volgarizzati da satelliti sempre più invasi che oggi rimandano
immagini un tempo impossibili perfino sugli smartphone, impiegate violentemente
ed ossessivamente a violare segreti
privati e indecenze pubbliche, a rendere, insomma, il mondo una finestra
spalancata dalla quale penetrare l’impenetrabile.
Mi
viene in mente oggi, come sempre del resto ha accompagnato tanti momenti
privati in questi lunghi decenni, l’armoniosa The dark
Side of The Moon dei grandissimi Pink Floyd, un concept
album, come si diceva una volta che, auspice Roger Waters, volle “raccogliere”
nella parte oscura (o presunta tale) della Luna “un'istanza di empatia
politica, filosofica e umanitaria che chiedeva disperatamente di venir fuori“,
nella quale conflitti interiori, demoni del denaro, alienazione collettiva,
senso della morte e della finitezza umana dove altro avrebbero potuto essere
collocati se non nella “cassaforte più lontana ed inaccessibile”, come scrigno
del dolore umano al quale fare riferimento senza intermediazioni? Così l’ho
sempre interpretata e le solenni, eleganti, struggenti note che aprono l’opera
rock introducono ad una visione tutt’altro che banale della Luna.
Una
rappresentazione, è ovvio. Soggettiva eppure vastamente condivisibile. Come
tante. Ma che quel passo sul suolo lunare fosse davvero l’esplicitazione del “lato
oscuro” della modernità è fuor di dubbio, metafora di tutte le sue
contraddizioni e delle nefandezze correlate.
Chi
direbbe oggi: “Che fai tu, Luna, in ciel? Dimmi che fai, silenziosa luna?”, con
Giacomo Leopardi? Presenza amica e consolatrice un tempo, oggetto smitizzato
dalla “profanazione”, non rappresenta più nulla. Ed i poeti possono scriverne
soltanto osservandola come la curiosa “appendice” vagante intorno alla Terra,
una stazione di rifornimento forse per più lunghi ed arditi viaggi, insomma la
materializzazione “utile” del sogno che s’è infranto con motivazioni nobili,
che nobili non erano. Sembra che il magnate Jeff Bezos ci stia pensando...
La
conquista dello spazio cominciò con la guerra fredda. Ce lo ricordano, tra gli
altri, Luca Liguori e Giancarlo Mazzuca con il bel libro 21
luglio 1969.Quel giorno sulla Luna (Minerva, pp. 102, € 12.00), che
raccontando la genesi dell’avventura non tacciono il ruolo di Werner von Braun,
l’inventore delle micidiali macchine da guerra di Hitler, arruolato con altri
scienziati nazisti senza andare troppo per il sottile, come del resto fecero i
sovietici; ricordano la “confrontazione” tra le due superpotenze con una
schiacciante supremazia iniziale di quella russa (Sputnik e Gagarin e Valentina
Tereskova); si diffondono sulla politica spaziale americana ritenuta vitale al
dispiegamento del suo imperialismo. Una questione altamente politica. “Abbiamo
deciso di andare sulla luna in questo decennio - disse John F. Kennedy a
Houston il 12 settembre 1962 - e di impegnarci anche in altre imprese, non
perché sono semplici, ma perché sono difficili, perché questo obiettivo ci
permetterà di organizzare e di mettere alla prova il meglio delle nostre
energie e delle nostre capacità, perché accettiamo di buon grado questa sfida,
non abbiamo intenzione di rimandarla e siamo determinati a vincerla, insieme a
tutte le altre”.
Impresa
non facile: se ne rendeva perfettamente conto il giovane presidente, “inconsapevole conservatore”, ma capiva che
se la bandiera a stelle e strisce non fosse stata piantata dagli americani
sulla Luna qualcun altro l’avrebbe fatto e per l’America sarebbe stata più che
una sconfitta. Quando da Cape Kennedy l’Apollo 11 si staccò con la potenza di
fuoco dei suoi reattori, paura, speranza, disperazione dilagarono nel mondo.
Ognuno aveva le sue ragioni.
E
quelle dei poeti? Dei ragazzi che cadevano in Vietnam, degli europei sconfitti
e divisi da un muro e degli intellettuali ed operai e contadini che marcivano
nei Gulag? Per loro la luna s’era eclissata da tempo: la notte senza la luce
bianca e fredda dell’astro serviva per fuggire, mentre s’approntavano carichi
di napalm per il giorno ed ordinarie persecuzioni nel mondo militarizzati tra
intricati reticoli di filo spinato, l’universo concentrazionario comunista....
La Luna contemplava immota i massacri terrestri. E poi forse, chissà, udì il
frastuono trasmesso dal Lem di Armstrong, Aldrin e Collins. Un mese dopo a
Woodstock si riunì la “nazione” immaginaria che della conquista dello spazio
non poteva fregarsene di meno.
Non
ero solo quel 21 luglio. Oriana Fallaci, in un indimenticabile reportage per l’Europeo,
scrisse: “Ci si abitua a tutto, anche al miracolo d’essere usciti dalla nostra
prigione di azzurro per approdare a quell’isola brutta: presto ce ne
scorderemo... Ripetere la sfida non ci sembra più un rischio blasfemo, e della
meravigliosa avventura non resterà che una carnevalata intorno a due piloti cui
abbiamo regalato la patente di eroi, l’immagine sui francobolli, il nome nei
libri di scuola, un posto nella storia”.
Il
sentimento religioso e mitico dispiegatosi intorno alla Luna, che ha accomunato
per millenni tutte le civiltà, vero e proprio elemento unificante venerato a
Oriente come a Occidente, in una “gloriosa” estate si trasformò in deposito di
ferraglie e moneta di scambio politico. Forse addirittura in un “mantra” scientifico,
però si mangiò tutti i versi, le storie d’amore, i sogni dei fanciulli e dei
vecchi, in una interminabile diretta televisiva, priva di pathos e gremita da
primedonne che volevano dimostrare di saperne più degli scienziati della Nasa e
degli astronauti.
Da
mito a cosa: perché mi sarei ancora dovuto interessare della Luna? Per mezzo
secolo ho evitato poesie e prose che ad essa si riferissero. Fino a tre anni
fa.
Una
sera d’estate, a Sabaudia, il mio ultimo nipotino, Michele, mi strattonò all’improvviso
indicandomi con un dito la Luna mezza piena. E mi sorrise. Volle che lo
prendessi in braccio. E continuò a puntare il dito. Spiccicava poche parole.
Gli dissi: “Guardala bene, è la Luna”. Da quel giorno, e per molti mesi, mi
ripeté quella parola, aspettando la sera. E quando non appariva in cielo si
rabbuiava, deluso, come se fosse stato abbandonato. C’è voluto del tempo per
spiegargli come stavano le cose. Ma da allora, spinto da un impulso che non
riesco a razionalizzare, ho ripreso a guardare la Luna, incurante di ciò che è diventata
e memore di ciò che è stata.
Stamattina,
20 luglio, prima dell’alba, la Luna illuminava i monti e le valli carinziane
con un’intensità che mi è apparsa inusuale. E era bellissima. Mistero e poesia.
Cinquant’anni ci sono voluti per riconciliarmi con essa. È un miracolo della
natura e del tempo, già manifestatosi: il vecchio che ridiventa fanciullo
grazie ad un bambino. Zarathustra l’aveva capito prima e gli diede un nome:
eterno ritorno. La Luna sarà quella di sempre. Fino alla fine di tutto.