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La vita è togliersi dai coglioni

giancristiano desiderio
Pubblicato da in Povera e nuda · 23 Giugno 2019
Tags: coglioniwittgensteinweilvitamorte

di Giancristiano Desiderio

La vita è fare qualcosa bene e con piacere per poi togliersi dai coglioni. Detta così sembra una scemenza, invece è quasi un’opera d’arte. Non sempre ci si riesce, quasi mai. Perché fare qualcosa bene e con piacere non è facile. Solo una esigua minoranza riesce a fare qualcosa bene e con piacere. Molti fanno qualcosa con sforzo, costrizione, mentre sono i più coloro che non fanno qualcosa né con piacere né con sforzo e, purtroppo, non riescono neanche a togliere il disturbo. La cosa non deve stupire perché, in fondo in fondo, la vera opera d’arte è togliersi dai coglioni con naturalezza, con classe, senza fare resistenza, peraltro inutile, e questa è davvero una rarità che solo pochi sanno o hanno la fortuna di praticare, come dopotutto è rara, forse unica, l’uscita di scena al momento giusto del grande attore.

La nostra singola individualità è davvero poca cosa. Certo che vi siano attaccati e nutriamo per essa un vero amor proprio ma questo sentimento di possesso, quasi come la celebre roba di Giovanni Verga, non fa altro che aumentare la precarietà. Il mondo è non solo l’insieme dei fatti, come ripete Wittgenstein (uno che seppe uscire di scena), ma anche l’insieme delle individualità create e distrutte, distrutte e create, perché per sé le individualità non hanno il fuoco universale che le accende e le consuma. La vita umana, come è stata concepita dall’Occidente, è la creazione di un’opera tramite la distruzione dell’individualità (che, del resto, è distrutta anche senza la creazione operosa).

Simone Weil diceva una cosa bella e vera che annotava nei Quaderni: “Ogni volta che facciamo qualcosa con cura distruggiamo il male che è in noi”. Il male, infatti, che siamo sempre pronti a vedere negli altri, è dentro di noi come un fuoco sacro e, per bizzarro che possa sembrare, è la fonte stessa del bene che possiamo fare. L’idea di scacciare il male equivale a rendere sterile la vita. Il male è parte viva della vita e non vi si può usare sopra ottusa tirannide altrimenti si incattivisce, proprio come accade con le bestie chiuse nelle gabbie dei giardini zoologici. Il male, che coincide con noi stessi e la vitalità cruda e verde, fiera e selvaggia, non può essere annullato ma solo governato e messo in forma: l’energia della vita che ci sostiene e ci sbrana è la radice del bene e del male, del piacere e del dolore. Governare oltremisura questa energia non è dato a nessuno, nemmeno a Dio, figurarsi a un leader, a un partito, a uno stato, come ce ne sono stati molti nel Novecento e ancora, purtroppo, ce ne sono e traggono alimento proprio da quel sentimento edonistico con cui la vita è immaginata beata e tale sarebbe se solo il male fosse discacciato da un Dio o da una conoscenza superiore che gli uomini, scioccamente, hanno creduto di concepire, senza accorgersi che se ci fosse sarebbe la fine di tutte le cose del mondo e del mondo stesso. E così immaginando, ossia pensando male o non pensando punto, si chiede il paradiso e si prepara l’inferno.

Noi oggi non crediamo alla vita beata ma abbiamo sostituito alla beatitudine dei miti religiosi la beatitudine secolare: il benessere. La vita moderna è la ricerca continua del benessere come sorta di paradiso perduto che è destinato ad essere sempre perduto perché nulla è più malfermo del benessere. In fondo, il benessere fisico e sociale ha il suo corrispettivo ideologico nell’utilitarismo positivista e nella riduzione dell’essere-uomo all’unica dimensione dell’economico. Eppure, pensare di avere utilità senza poter ottenere cose sommamente inutili come il bene, la bellezza, la teoria, l’amore, la passione è la cosa non solo più inutile ma anche la più vana e vacua che si possa concepire. E siccome non c’è bene, né bellezza, né poesia, né verità, né amore, né passione senza il male o la radice verde e cruda della vitalità che deve essere superata e formata, allora, appare come del tutto falsa la visione di un’umanità che possa nutrire come suo ideale di vita il benessere.

Noi non siamo i padroni della nostra vita se non in modo molto, molto relativo. La stessa padronanza che esercitiamo su noi stessi come unici legittimi sovrani resistendo alla tentazione di essere Dio, sulla natura e sulla società può essere tale solo se limitata: è il confine che conferisce forza e qualità. La padronanza è la libertà che non è solo nostra ma è la qualità della condizione esistenziale e storica nella quale sempre siamo. Il prezzo della libertà è il pericolo, il rischio, l’insicurezza, la non-padronanza, l’esilio, l’erranza. L’albero della vita è, per fortuna, molto più grande dell’albero della conoscenza. E’ inevitabile che sia così se il prezzo del biglietto dell’essere è il non-essere. Questo rododendro  - rododentro diceva Nanny Loy in una celebre Candid Camera -  questo rododendro dell’essere è la condizione di esistenza dell’essere, che altrimenti sarebbe una lastra di inconsistenza dell’eternità, rende tutto rischioso e tutto significativo per un’umanità che vive secondo il nobile lavoro della sua libertà. Sono l’avventura e il lavoro che ci nobilitano, non consentendoci di coincidere con un essere determinato come avviene per le piante e per gli animali. La nobiltà umana è l’uscita dal paradiso. La sua dannazione è la perenne tentazione di ritornarci.

La vitalità è gioia e dolore, è governabile e ingovernabile, è sicura e insicura, è grandezza e miseria, è verde e cancerosa. Molto spesso è essa che decide il nostro destino senza che nulla si possa fare se non lottare, opporsi, resistere ma non è detto che la resistenza sia non solo sempre giusta e santa ma anche sopportabile e conveniente e, insomma, umana. A volte è la nostra stessa conoscenza e i rimedi escogitati per sanare la vita che ci consegnano a una condizione disumana. Spesso, come nota bene Michel Houellebecq ne Le particelle elementari, la nostra vita è decisa da una deviazione. La vita inizia a deviare. Prende un’altra direzione. Non solo perché la vita è ciò che ti accade mentre sei intento a fare o a pensare ad altro, come ama ripetere Raffaele La Capria, ma anche perché la vitalità devia in modo del tutto naturale perché, in fondo, essa ha per fine solo se stessa e non la nostra vita individuale che le è indifferente in salute e in malattia, in vita e in morte. A quel punto noi non possiamo fare nulla ma proprio nulla se non rispondere alla deviazione se ci è concesso di rispondere. A volte la deviazione è così brusca e così forte che ci sbalza via dalla nostra strada. Altra volta la deviazione non è neanche direttamente nostra ma di chi ci sta vicino, di chi ci è caro, forse, più della nostra vita e rinunciando al nostro amor proprio vorremmo noi essere stati deviati. La deviazione cambia la vita. La deviazione è la vita, nonostante tutto. La deviazione è l’annuncio che sta per arrivare il tempo di uscire di scena e di togliersi dai coglioni. Ma, qui giunto, do il buon esempio e come al tempo delle mie “vacanze romane” faccio come l’amico Baglioni che salutava e si toglieva dai coglioni.



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