di Giancristiano Desiderio
La vita è fare qualcosa bene e con piacere per poi
togliersi dai coglioni. Detta così sembra una scemenza, invece è quasi un’opera
d’arte. Non sempre ci si riesce, quasi mai. Perché fare qualcosa bene e con
piacere non è facile. Solo una esigua minoranza riesce a fare qualcosa bene e
con piacere. Molti fanno qualcosa con sforzo, costrizione, mentre sono i più
coloro che non fanno qualcosa né con piacere né con sforzo e, purtroppo, non
riescono neanche a togliere il disturbo. La cosa non deve stupire perché, in
fondo in fondo, la vera opera d’arte è togliersi dai coglioni con naturalezza,
con classe, senza fare resistenza, peraltro inutile, e questa è davvero una
rarità che solo pochi sanno o hanno la fortuna di praticare, come dopotutto è
rara, forse unica, l’uscita di scena al momento giusto del grande attore.
La nostra singola individualità è davvero poca cosa.
Certo che vi siano attaccati e nutriamo per essa un vero amor proprio ma questo
sentimento di possesso, quasi come la celebre roba di Giovanni Verga, non fa
altro che aumentare la precarietà. Il mondo è non solo l’insieme dei fatti,
come ripete Wittgenstein (uno che seppe uscire di scena), ma anche l’insieme
delle individualità create e distrutte, distrutte e create, perché per sé le
individualità non hanno il fuoco universale che le accende e le consuma. La vita
umana, come è stata concepita dall’Occidente, è la creazione di un’opera
tramite la distruzione dell’individualità (che, del resto, è distrutta anche
senza la creazione operosa).
Simone Weil diceva una cosa bella e vera che annotava
nei Quaderni: “Ogni volta che facciamo qualcosa con cura distruggiamo il
male che è in noi”. Il male, infatti, che siamo sempre pronti a vedere negli
altri, è dentro di noi come un fuoco sacro e, per bizzarro che possa sembrare,
è la fonte stessa del bene che possiamo fare. L’idea di scacciare il male
equivale a rendere sterile la vita. Il male è parte viva della vita e non vi si
può usare sopra ottusa tirannide altrimenti si incattivisce, proprio come
accade con le bestie chiuse nelle gabbie dei giardini zoologici. Il male, che
coincide con noi stessi e la vitalità cruda e verde, fiera e selvaggia, non può
essere annullato ma solo governato e messo in forma: l’energia della
vita che ci sostiene e ci sbrana è la radice del bene e del male, del piacere e
del dolore. Governare oltremisura questa energia non è dato a nessuno, nemmeno
a Dio, figurarsi a un leader, a un partito, a uno stato, come ce ne sono stati molti
nel Novecento e ancora, purtroppo, ce ne sono e traggono alimento proprio da
quel sentimento edonistico con cui la vita è immaginata beata e tale sarebbe se
solo il male fosse discacciato da un Dio o da una conoscenza superiore che gli
uomini, scioccamente, hanno creduto di concepire, senza accorgersi che se ci
fosse sarebbe la fine di tutte le cose del mondo e del mondo stesso. E così
immaginando, ossia pensando male o non pensando punto, si chiede il paradiso e
si prepara l’inferno.
Noi oggi non crediamo alla vita beata ma abbiamo
sostituito alla beatitudine dei miti religiosi la beatitudine secolare: il
benessere. La vita moderna è la ricerca continua del benessere come sorta di
paradiso perduto che è destinato ad essere sempre perduto perché nulla è più
malfermo del benessere. In fondo, il benessere fisico e sociale ha il suo
corrispettivo ideologico nell’utilitarismo positivista e nella riduzione dell’essere-uomo
all’unica dimensione dell’economico. Eppure, pensare di avere utilità senza
poter ottenere cose sommamente inutili come il bene, la bellezza, la teoria, l’amore,
la passione è la cosa non solo più inutile ma anche la più vana e vacua che si
possa concepire. E siccome non c’è bene, né bellezza, né poesia, né verità, né
amore, né passione senza il male o la radice verde e cruda della vitalità che
deve essere superata e formata, allora, appare come del tutto falsa la visione
di un’umanità che possa nutrire come suo ideale di vita il benessere.
Noi non siamo i padroni della nostra vita se non in
modo molto, molto relativo. La stessa padronanza che esercitiamo su noi stessi
come unici legittimi sovrani resistendo alla tentazione di essere Dio, sulla
natura e sulla società può essere tale solo se limitata: è il confine che
conferisce forza e qualità. La padronanza è la libertà che non è solo nostra ma
è la qualità della condizione esistenziale e storica nella quale sempre siamo.
Il prezzo della libertà è il pericolo, il rischio, l’insicurezza, la
non-padronanza, l’esilio, l’erranza. L’albero della vita è, per fortuna, molto
più grande dell’albero della conoscenza. E’ inevitabile che sia così se il prezzo
del biglietto dell’essere è il non-essere. Questo rododendro - rododentro diceva Nanny Loy in una celebre Candid
Camera - questo rododendro dell’essere è
la condizione di esistenza dell’essere, che altrimenti sarebbe una lastra di
inconsistenza dell’eternità, rende tutto rischioso e tutto significativo per un’umanità
che vive secondo il nobile lavoro della sua libertà. Sono l’avventura e il
lavoro che ci nobilitano, non consentendoci di coincidere con un essere determinato
come avviene per le piante e per gli animali. La nobiltà umana è l’uscita dal
paradiso. La sua dannazione è la perenne tentazione di ritornarci.
La vitalità è gioia e dolore, è governabile e
ingovernabile, è sicura e insicura, è grandezza e miseria, è verde e cancerosa.
Molto spesso è essa che decide il nostro destino senza che nulla si possa fare
se non lottare, opporsi, resistere ma non è detto che la resistenza sia non
solo sempre giusta e santa ma anche sopportabile e conveniente e, insomma,
umana. A volte è la nostra stessa conoscenza e i rimedi escogitati per sanare
la vita che ci consegnano a una condizione disumana. Spesso, come nota bene
Michel Houellebecq ne Le particelle elementari, la nostra vita è decisa
da una deviazione. La vita inizia a deviare. Prende un’altra direzione. Non
solo perché la vita è ciò che ti accade mentre sei intento a fare o a pensare
ad altro, come ama ripetere Raffaele La Capria, ma anche perché la vitalità devia
in modo del tutto naturale perché, in fondo, essa ha per fine solo se stessa e
non la nostra vita individuale che le è indifferente in salute e in malattia,
in vita e in morte. A quel punto noi non possiamo fare nulla ma proprio nulla
se non rispondere alla deviazione se ci è concesso di rispondere. A volte la
deviazione è così brusca e così forte che ci sbalza via dalla nostra strada. Altra
volta la deviazione non è neanche direttamente nostra ma di chi ci sta vicino,
di chi ci è caro, forse, più della nostra vita e rinunciando al nostro amor
proprio vorremmo noi essere stati deviati. La deviazione cambia la vita. La
deviazione è la vita, nonostante tutto. La deviazione è l’annuncio che sta per
arrivare il tempo di uscire di scena e di togliersi dai coglioni. Ma, qui
giunto, do il buon esempio e come al tempo delle mie “vacanze romane” faccio
come l’amico Baglioni che salutava e si toglieva dai coglioni.