di Giancristiano Desiderio
La furbizia è un punto di
forza nazionale ossia una debolezza italiana. Si sa: gli italiani credono di
essere sempre i più intelligenti, i più scafati, i più scaltri, insomma, i più
furbi. Ad esempio: il governo in carica
- il governo del Cambiamento - ha
concordato con l’Europa una legge di bilancio in deficit per - nientemeno - rilanciare l’economia. Risultato: siamo quasi
in recessione e l’Unione europea scrive al governo il quale, però, quando ha
scelto la via dell’aumento del debito già sapeva che non avrebbe potuto
rispettare l’accordo con l’Europa. Appunto, furbizia. Solo furbizia che,
proprio come le bugie, ha le gambe corte.
I furbi e i fessi sono
categorie universali che Giuseppe Prezzolini volle usare per dare un codice
civile degli italiani. Li divise in furbi e fessi e, contrariamente a quanto non
s’immagini, sono questi ultimi, i meravigliosi fessi - che lavorano, pagano, sudano - a mandare avanti la carretta. I furbi,
invece, quelli che ritengono di saperla sempre più lunga, sono un po’ come il
celebre ragionier Casoria di cui discorrono quei due fessi di Totò e Peppino
nel film La banda degli onesti: “Rasenta
il codice ma non vi incappa. E’ furbo”, dicevano.
A volte, però, le divisioni
così nette rischiano di essere false. La verità è più modesta. I furbi e i
fessi invece di essere due categorie distinguibili singolarmente come persona
da persona sono, piuttosto, due tendenze del nostro animo che combattono in noi
e a volte può prevalere la furbizia e a volte può prevalere la fessaggine, di
modo che siamo tutti un po’ furbi e un po’ fessi.
Esiste, però, un punto in
cui il furbo che è in noi prende realmente il sopravvento e si distacca dalla
fessaggine scoprendo la vocazione della furbizia. Accade quando il furbo si
scopre davvero astuto come una volpe e non solo pensa di riuscire a far fessi i
fessi ma, addirittura, crede di far fessi i furbi. Così il furbo, scoperta la
sua vera vocazione, lascia i suoi amici che si attengono, poveri fessi, ai
doveri, ai lavori, alle buone intenzioni e alle buone azioni, e s’incammina su
un’altra strada più breve con cui, in compagnia di un furbo che, però, non è
così furbo quanto lui, immagina di raggiungere più agevolmente e più
velocemente la meta e la vittoria.
E’ l’eterno Pinocchio che
c’è nell’anima italiana e che pensa di poter ottenere in modo facile ciò che è
difficile. Non è un caso che il furbo sia un bugiardo, ma così bugiardo che
davvero gli cresce in pubblico come al figlio di mastro Geppetto il naso.
Povero Pinocchio che lascia i suoi compagni e va con il Gatto e la Volpe che
gli promettono di far fruttare le sue monete sotterrandole per far spuntare un
albero carico carico di monete d’oro. Sapete già come andò a finire la storia.
Ma chi volete che legga
più oggi Le avventure di Pinocchio.
Croce diceva che il burattino era stato intagliato nel legno dell’umanità, ma
se non è letto Collodi figurarsi se sia letto Croce e solo un fesso come me,
che vive in un mondo di furbi e volpini sopraffini, legge l’uno e l’altro con l’idea
di riconoscere meglio i “furbetti del quartierino” e i “furbetti del paesino”,
il gatto e la volpe, il lupo e l’agnello, il maiale e l’oca e tutta questa
bella famiglia d’erbe e d’animali.
La vocazione del furbo
mostra ben presto la corda. Qualcosa non va per il verso giusto. Così il furbo
capisce, quando ormai è troppo tardi, che c’è sempre qualcuno più furbo, magari
proprio quello a cui si era affidato ritenendolo fesso o non furbo quanto lui.
E’ un po’ come la storia dei pifferi di montagna che andarono per suonare e
furono suonati. E’ un po’ come i puri: c’è sempre uno più puro che ti epura e c’è
sempre uno più furbo che ti incula.
Il furbo, in fondo, che
cos’è se non un presuntuoso? Crede di tenere tutto e tutti sotto controllo.
Crede di sapere ciò che gli altri non sanno, di capire ciò che gli altri non
capiscono. Crede di essere il signore del mondo. Poi, non si sa come, non si sa
perché, ma qualcosa va storto. Le cose non vanno come sarebbero dovute andare secondo furbizia. E allora si capisce,
se prevale la parte fessa che c’è in ognuno di noi, che la furbizia è un atto
di superbia e, ancor più, è la debolezza della coscienza morale.
Non saprei a quale delle
cinque categorie di don Mariano Arena, boss de Il giorno della civetta, al quale Leonardo Sciascia fa pronunciare
la famosa frase rivolta al capitano dei carabinieri, Bellodi - “Io divido l’umanità in cinque categorie:
ci sono gli uomini veri, i mezzi uomini, gli ominicchi, i piglianculo, i
quaquaraquà” - far rientrare l’uomo
vocato alla furbizia ma, forse, qualcosa mi dice che il furbo che crede di
essere il più furbo di tutti rientra nella categoria dei piglianculo, non foss’altro
perché conosce a sue spese le conseguenze della furbizia. Sono gli
inconvenienti della vocazione.
Ma l’espressione più
tipica del furbo ci è data dalla terza legge della stupidità umana codificata
da Carlo Maria Cipolla: “Una persona stupida è chi causa un danno ad un’altra
persona o gruppo di persone senza nel contempo realizzare alcun vantaggio per
sé o addirittura subendo una perdita”. Questa è la vocazione della furbizia.