di Gennaro Malgieri
Napoli,
caleidoscopio in cui si tengono immagini tragiche e grottesche. Mutano,
imprevedibilmente, e danno un senso irreale alla vita che si dispiega tra la
meraviglia ed il disordine istituzionalizzato. Rare isole di paradiso aggredite
dall’inatteso. E focolai infernali domati da gesti di rara umanità.
La
piccola Noemi ferita in un agguato camorrista, una comunità che si stringe
attorno a lei e condivide il dolore dei familiari, mentre il figlio di un boss
rinnega il padre e si condanna alla marginalità rispetto al clan nel qual è
cresciuto. Poi c’è qualcuno, una ragazza di Baronissi, vicino Salerno, che
ricorda al ministro dell’Interno, temerariamente avvicinandolo, che quel Sud
che sta battendo palmo per palmo rastrellando consensi, era una terra, fino a
poco tempo fa, per i Padani, da lasciare al proprio destino ed i suoi abitanti
la Lega Nord li qualificava come “terroni di merda” (alla faccia della destra
che Salvini rappresenterebbe). Ora i “terroni” di Napoli e dintorni salutano il
leader leghista-sudista allo stesso modo dei borghesi che capirono dove tirava
il vento accogliendo Garibaldi; eroe del “loro mondo” più che dei Due Mondi,
come il liberatore a lungo atteso, dopo aver indecentemente trescato nei
lupanari politici borbonici.
Impossibile
decifrare questa città dove miseria e nobiltà convivono per confondere
strategicamente chiunque tenti di penetrarla nelle sue viscere nelle quali
perdersi è il minimo che possa accadere al visitatore incauto. Ma lo
smarrimento fisico può perfino essere piacevole, come testimonia lo
straniamento sperimentato da Goethe, Stendhal, Mommsen tra i “bassi”, i
“quartieri spagnoli” e le ombre della città velata nella quale i misteri
ancestrali erano e sono sentinelle silenziose a protezione dell’anima profonda
di Napoli che nessuno ha mai provato a risolvere. Come il mistero della
bellezza che convive con il crimine, dell’armonia che si accompagna al
disordine, della gaiezza che, come una giornata di primavera, improvvisamente
cede al lutto. Ed il grottesco su tutto mette il suo sigillo e definitivamente
rende indecifrabile (quasi una condanna) l’anima di una città che è difficile
giudicare, comunque la si pensi e la si percepisca.
Quel
che è accaduto al San Carlo al cospetto del re di Spagna, di suo padre, del
presidente della Repubblica italiana e del presidente della Repubblica
portoghese è stato liquidato, non senza ragione, come “grottesco”. Ma è molto
di più. È un attentato all’intelligenza da parte dell’intelligenza che ha
tradito. Il parterre dello splendido
teatro, e soprattutto i reali ospiti, hanno dovuto ingoiare la Marcia reale
spagnola con la sovrapposizione sulla musica delle parole che Francisco Franco
dettò vanitosamente a sua imperitura (eppur caduca...) gloria e così per decenni
venne eseguita: aveva un senso in quel regime, dal momento che la monarchia era
sospesa, ma protetta, tanto che il dittatore designò il nipote di Alfonso XIII,
Juan Carlos di Borbone, quale futuro capo di Stato dopo la sua morte. Uno dei
primi provvedimenti del giovane re e del suo governo, presieduto da Adolfo
Suarez, fu quello di cancellare le parole dell’inno lasciando la musica. Un
saggio espediente per far comprendere come il cambiamento avvenisse nel
rispetto della continuità monarchica.
A
Napoli, città storicamente borbonica - i cinque ultimi re appartenevano a
quella dinastia - non poteva accadere una simile gaffe; ma soltanto là, nella
città dove discutibili insorgenze neo-borboniche mostrano una vitalità a dir
poco eccentrica (nulla a che fare un grande studioso della dinastia come il
compianto Silvio Vitale), è potuta paradossalmente accadere. Come mai? Per quel
misterioso karma che pervade Napoli e
la rende incomprensibile anche se, molto più terra-terra, e senza scomodare né
Benedetto Croce, né Anna Maria Ortese, vorremmo poter derubricare l’incidente
ad effetto collaterale dell’approssimazione, della superficialità, perfino
della dabbenaggine con cui tutto ciò che è pubblico a Napoli si tinge di
grottesco quando non più gravemente di tragico.
Nulla
accade per caso, insomma. Le istituzioni sono allo sfascio, si fanno la guerra
senza che venga mai fuori un vincitore, ma molte vittime - i napoletani -
restano a piangere suoi loro guai; nessuno si prova, da tempo, immemorabile, ad
immaginare un’identità che risollevi le sorti di quella che a ragione è stata
considerata nei secoli la capitale del Mediterraneo; non viene individuata la
sua vocazione, non viene valorizzata la sua cultura, non viene proposta come
“luogo” di interscambio di idee soprattutto con il vicino Oriente e la sponda
meridionale mediterranea: la grettezza delle autorità nazionali e locali
impedisce, insomma, uno sguardo
d’assieme che contemperi l’integrazione della modernità con la tradizione, una
prospettiva che è nello spirito della “napoletanità”.
Insomma,
manca una visione di Napoli. La lista dei morti ammazzati si allunga, il suo
patrimonio storico-culturale rovina, il degrado sta sommergendo anche ciò che
sembrava inattaccabile, il disagio rassegnato della gente è il più feroce atto
d’accusa all’establishment che continua a considerare Napoli soltanto come una
capace bisaccia dalla quale trarre consensi. E nessuno si sottrae. Neppure
coloro che schifavano la pizza Margherita per la più succulenta cassoeula: i voti elettorali fanno
digerire ogni cosa. Perfino una Marcia reale farlocca...