blog - giancristiano desiderio

Vai ai contenuti

Napoli, miseria e nobiltà di un'ex capitale

giancristiano desiderio
Pubblicato da in Forche caudine · 10 Maggio 2019
Tags: NapoliSalvinineoborboniciSpagna

di Gennaro Malgieri

Napoli, caleidoscopio in cui si tengono immagini tragiche e grottesche. Mutano, imprevedibilmente, e danno un senso irreale alla vita che si dispiega tra la meraviglia ed il disordine istituzionalizzato. Rare isole di paradiso aggredite dall’inatteso. E focolai infernali domati da gesti di rara umanità.

La piccola Noemi ferita in un agguato camorrista, una comunità che si stringe attorno a lei e condivide il dolore dei familiari, mentre il figlio di un boss rinnega il padre e si condanna alla marginalità rispetto al clan nel qual è cresciuto. Poi c’è qualcuno, una ragazza di Baronissi, vicino Salerno, che ricorda al ministro dell’Interno, temerariamente avvicinandolo, che quel Sud che sta battendo palmo per palmo rastrellando consensi, era una terra, fino a poco tempo fa, per i Padani, da lasciare al proprio destino ed i suoi abitanti la Lega Nord li qualificava come “terroni di merda” (alla faccia della destra che Salvini rappresenterebbe). Ora i “terroni” di Napoli e dintorni salutano il leader leghista-sudista allo stesso modo dei borghesi che capirono dove tirava il vento accogliendo Garibaldi; eroe del “loro mondo” più che dei Due Mondi, come il liberatore a lungo atteso, dopo aver indecentemente trescato nei lupanari politici borbonici.

Impossibile decifrare questa città dove miseria e nobiltà convivono per confondere strategicamente chiunque tenti di penetrarla nelle sue viscere nelle quali perdersi è il minimo che possa accadere al visitatore incauto. Ma lo smarrimento fisico può perfino essere piacevole, come testimonia lo straniamento sperimentato da Goethe, Stendhal, Mommsen tra i “bassi”, i “quartieri spagnoli” e le ombre della città velata nella quale i misteri ancestrali erano e sono sentinelle silenziose a protezione dell’anima profonda di Napoli che nessuno ha mai provato a risolvere. Come il mistero della bellezza che convive con il crimine, dell’armonia che si accompagna al disordine, della gaiezza che, come una giornata di primavera, improvvisamente cede al lutto. Ed il grottesco su tutto mette il suo sigillo e definitivamente rende indecifrabile (quasi una condanna) l’anima di una città che è difficile giudicare, comunque la si pensi e la si percepisca.

Quel che è accaduto al San Carlo al cospetto del re di Spagna, di suo padre, del presidente della Repubblica italiana e del presidente della Repubblica portoghese è stato liquidato, non senza ragione, come “grottesco”. Ma è molto di più. È un attentato all’intelligenza da parte dell’intelligenza che ha tradito. Il parterre dello splendido teatro, e soprattutto i reali ospiti, hanno dovuto ingoiare la Marcia reale spagnola con la sovrapposizione sulla musica delle parole che Francisco Franco dettò vanitosamente a sua imperitura (eppur caduca...) gloria e così per decenni venne eseguita: aveva un senso in quel regime, dal momento che la monarchia era sospesa, ma protetta, tanto che il dittatore designò il nipote di Alfonso XIII, Juan Carlos di Borbone, quale futuro capo di Stato dopo la sua morte. Uno dei primi provvedimenti del giovane re e del suo governo, presieduto da Adolfo Suarez, fu quello di cancellare le parole dell’inno lasciando la musica. Un saggio espediente per far comprendere come il cambiamento avvenisse nel rispetto della continuità monarchica.

A Napoli, città storicamente borbonica - i cinque ultimi re appartenevano a quella dinastia - non poteva accadere una simile gaffe; ma soltanto là, nella città dove discutibili insorgenze neo-borboniche mostrano una vitalità a dir poco eccentrica (nulla a che fare un grande studioso della dinastia come il compianto Silvio Vitale), è potuta paradossalmente accadere. Come mai? Per quel misterioso karma che pervade Napoli e la rende incomprensibile anche se, molto più terra-terra, e senza scomodare né Benedetto Croce, né Anna Maria Ortese, vorremmo poter derubricare l’incidente ad effetto collaterale dell’approssimazione, della superficialità, perfino della dabbenaggine con cui tutto ciò che è pubblico a Napoli si tinge di grottesco quando non più gravemente di tragico.

Nulla accade per caso, insomma. Le istituzioni sono allo sfascio, si fanno la guerra senza che venga mai fuori un vincitore, ma molte vittime - i napoletani - restano a piangere suoi loro guai; nessuno si prova, da tempo, immemorabile, ad immaginare un’identità che risollevi le sorti di quella che a ragione è stata considerata nei secoli la capitale del Mediterraneo; non viene individuata la sua vocazione, non viene valorizzata la sua cultura, non viene proposta come “luogo” di interscambio di idee soprattutto con il vicino Oriente e la sponda meridionale mediterranea: la grettezza delle autorità nazionali e locali impedisce, insomma,  uno sguardo d’assieme che contemperi l’integrazione della modernità con la tradizione, una prospettiva che è nello spirito della “napoletanità”.

Insomma, manca una visione di Napoli. La lista dei morti ammazzati si allunga, il suo patrimonio storico-culturale rovina, il degrado sta sommergendo anche ciò che sembrava inattaccabile, il disagio rassegnato della gente è il più feroce atto d’accusa all’establishment che continua a considerare Napoli soltanto come una capace bisaccia dalla quale trarre consensi. E nessuno si sottrae. Neppure coloro che schifavano la pizza Margherita per la più succulenta cassoeula: i voti elettorali fanno digerire ogni cosa. Perfino una Marcia reale farlocca...



Blog di critica, storia e letteratura di Giancristiano Desiderio.
Questo sito non è una testata giornalistica: è un blog. Il blog non è un prodotto editoriale sottoposto alla disciplina di cui all’art. 1, comma III della L. n. 62 del 7.03.2001, quindi ogni singolo blogger è responsabile di quanto scrive.
Torna ai contenuti